Uncharted: Golden Abyss – Recensione Uncharted: Golden Abyss
Altri elementi minori e meno riusciti, forse arbitrariamente piazzati dagli sviluppatori senza una logica ben precisa, si possono ravvisare in operazioni tanto obbligatorie quanto fiacche come il farsi strada attraverso tende non oltrepassabili se non prima tagliate (?) con il proprio machete, il raccogliere le armi attraverso il tocco di un’apposita icona a schermo o il continuo spolverare bassorilievi e incisioni sparsi per i livelli (un’idea che sembra così apprezzata da Bend tanto da farne rappresentare il proprio logo esattamente allo stesso modo). Altre attività, invece, divertono e annoiano allo stesso tempo. Ricomporre i pezzi di una mappa antica o lucidare oggetti alla ricerca di indizi sembrano più diversivi da smartphone che, per quanto divertenti, e seppur in maniera trascurabile, spezzano spesso il ritmo e creano una sorta di dissonanza che mina la credibilità della sceneggiatura e fa oscillare verso il basso il livello di partecipazione del giocatore.
Certo, è tradizione che al momento dello sviluppo di un titolo di lancio vi siano delle novità che sfruttino le nuove capacità della console, ma il nocciolo del gioco, con un effetto di ridondanza non privo di una certa attrattiva, fornisce al giocatore quella familiarità acquisita attraverso la trilogia di Uncharted su PS3. Non solo, infatti, non vi è alcuna riscrittura sostanziale della formula di gioco, ma in nessun modo gli sviluppatori avrebbero potuto essere più devoti al gameplay originario della serie: tutto fa pensare a una replica fedele del primo episodio piuttosto che un vero e proprio seguito, grazie alla riproposizione di quell’equilibrato mix di esplorazione e combattimenti che ebbe gran fortuna qualche anno or sono, compresa l’oramai dimenticata prova di bilanciamento sui tronchi basata sul Sixaxis.
Niente multiplayer per questa iterazione del franchise di Naughty Dog: l’interazione tra giocatori avviene unicamente tramite il Mercato Nero, che sfrutta Near per baratti di collezionabili (tesori e taglie dei nemici su tutti) che non accontenta ma nemmeno infastidisce. Gli stessi collezionabili, che forniscono una prova di adattamento e di integrazione a una fruizione portatile all’opera, sono presenti in una dose così massiccia tanto che per raggiungerne il compimento è richiesta una immersione costante e meccanica che prolunga di gran lunga le circa otto ore necessarie a un primo completamento dell’avventura.
Semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, si dovrebbe chiarire ancora e ancora quanto Uncharted: L’abisso d’oro sia un gioco dalla realizzazione tecnica sbalorditiva. A dispetto di occasionali glitch, aliasing, fiamme ed esplosioni maleducatamente low res o cali di frame rate esperibili nelle ultime sezioni di gioco, l’impressione di trovarsi di fronte al primo capitolo per PS3 è una realtà di fatto e senza ombra di dubbio degna dell’attenzione che ha ricevuto. Naturalmente, la considerazione più immediata che scaturisce da un approccio tecnico è che il gioco non si presenta nella piena risoluzione permessa dall’OLED di Ps Vita. Ciò non toglie che le animazioni estremamente convincenti (seppur lievemente ridotte rispetto alle versioni da salotto), le espressioni facciali semplicemente eccezionali e la generale perfezione estetica e a tratti lussureggiante del titolo portano alla luce senza troppe esagerazioni l’opera più graficamente eccellente che si sia mai vista su un sistema di gioco (e non) portatile. Il rovescio della medaglia? La rassomiglianza dei 34 capitoli offerti dal gioco, tutti ottusamente concentrati attorno al tema centroamericano e ben poco altro. Nessuna escursione su montagne innevate o deserti ostili per questa volta. Ma lamentarsi di questo e degli altri piccoli difetti elencati in precedenza significherebbe non comprendere come Uncharted: l’abisso d’oro non sia che un gioco che ha come argomento prevalentemente sé stesso quale titolo di lancio, ed è proprio per questo che linee di giuntura della realizzazione sono ancora tutte in vista, e anzi, indicandole, il gioco di Bend le lascia germogliare con genuina esuberanza.
A differenza dei suoi illustri predecessori, comunque, che sono per loro natura un dannato inventario di situazioni e soluzioni d’avanguardia, L’abisso d’oro ha una personalità più contenuta, un’attitudine così pudica che per la verità si limita a ripetere la formula di successo che ha perseguito Naughty Dog nella sua trilogia con piccole ma apprezzabili variazioni. Il lavoro di Bend non tende solo a essere il miglior titolo di lancio di Ps Vita, ma intende restituire piena dignità alla console dopo le critiche mosse prima del suo debutto sul mercato occidentale. Una sorta di crimine, da un certo punto di vista: oltre ad essere un delizioso invito ai consueti sogni di fuga e d’avventura di Drake e compagni, il primo, chiassoso vagito della nuova arrivata nella famiglia Playstation rischia forse di diventare un metro di paragone fuor di misura per i team attualmente al lavoro sulla console. E la comunità videoludica non può che gioire sapendo che molto presto qualcuno si cimenterà in un compito formidabile come il tentativo di superarlo: l’esordio di Vita, insomma, difficilmente poteva essere più fortunato.
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