Space Hulk: Deathwing – Recensione
Quando abbiamo visto per la prima volta Space Hulk: Deathwing la reazione non poteva essere che una: estasi. Senza girarci intorno, Deathwing è il Left 4 Dead dell’universo Warhammer, dove al posto degli zombie ci sono i Tiranidi e al posto di quattro superstiti male armati abbiamo quattro Space Marine di classe Terminator armati pesantemente, e, soprattutto, è ambientato all’interno di gigantesche navi da battaglia abbandonate nello spazio. Una formula di gioco cooperativo collaudata, un brand epico, una presentazione visiva notevole: tutte ottime premesse, eppure qualcosa è andato ugualmente per il verso sbagliato.
L’infinito universo di Warhammer 40.000 concede ai narratori molteplici possibilità: quella di Deathwing è la scoperta di un ammasso di relitti spaziali dell’Imperium risalenti a decine di migliaia di anni prima, al cui interno potrebbero nascondersi reliquie (ovvero: armi) talmente potenti da garantire una svolta nell’eterna guerra tra l’umanità e il resto delle razze che popolano la galassia. La compagna Deathwing, uno dei corpi di élite più rinomati tra gli Space Marine, viene inviata ad abbordare questi relitti nel delicato compito di recuperare le reliquie. Alla guida dei Terminator c’è un Bibliotecario, un ufficiale dotato di poteri psichici in grado di creare devastazione in battaglia, ma anche di presagire il futuro. Ovviamente mai in modo positivo e ovviamente tutto ciò che può andar male andrà male.
Deathwing fa propri tutti gli elementi tipici del lore di Warhammer per ricreare ambientazioni, armi e personaggi coerenti e ricchi di atmosfera: non si fosse costantemente distratti da orde di alieni pieni di artigli che cercano di lacerare e mangiare vivi i giocatori, si potrebbe perdere ore a esplorare ogni singola stanza anche solo per osservare i dettagli e immaginarsi cosa potesse accadere nella regolare vita di tali luoghi. Inoltre, chi ha sviluppato questo gioco meriterebbe un applauso per un dettaglio tanto superfluo quanto degno degli onori della cronaca: si vedono i piedi del proprio personaggio. E voltandosi intorno si possono osservare persino le estremità dell’armatura. Una banalità, ma a memoria è difficile ricordare uno sparatutto in prima persona dove gli sviluppatori si siano degnati di rendere la prospettiva più verosimile, contribuendo peraltro a rendere più credibile la pesantezza di indossare un’armatura di centinaia di chili.
La pesantezza è, positivamente (ma anche negativamente), l’elemento chiave di Deathwing. Contrariamente a Left 4 Dead o anche a Vermintide (gioco equivalente ambientato in Warhammer fantasy), Deathwing propone una formula lenta e ragionata fatta di meno sorprese ma più necessità tattica: i Terminator si muovono lentamente e non possono scattare per più di qualche secondo, ma allo stesso tempo il radar indica con “largo” anticipo da dove stanno arrivando i nemici, dando quasi sempre tempo a sufficienza per non essere colti impreparati – e qui entra in gioco la “gestione delle porte”: spesso e volentieri si troveranno porte e portoni più o meno resistenti da poter sigillare o distruggere. In un situazione di emergenza distruggere una porta per trovare una via di fuga potrebbe essere l’unica salvezza, ma potrebbe anche rappresentare un fatale errore quando si dovrà ripassare nella stessa zona con un possibile ingresso di nemici in meno. Allo stesso tempo, quando la conformazione di una stanza e i tempi lo consentono, si possono sfruttare le porte per ridurre al minimo le vie di attacco dei Tiranidi. Esiste poi la mappa tattica, dalla quale è possibile anche scansionare l’area per prendere controllo delle eventuali torrette di difesa sparse lungo tutti i livelli.
Il combattimento segue la medesima filosofia: in single player il giocatore controlla il Bibliotecario ed è seguito da due compagni controllati dall’IA, al quale può impartire anche comandi. Sebbene l’IA sia discretamente funzionale (ovvero: sa sparare e colpire), per avvantaggiare il giocatore solitario la modalità single player prevede la possibilità di evocare per un limitato numero di volte un teletrasporto che riporta istantaneamente alla base tutto il team, curando istantaneamente tutti e dando la possibilità di cambiare le armi. Il gunplay è convincente e combina melee ad armi a distanza, più o meno variabili in base alla classe, così come il sistema di danni, il quale inabilita le parti specifiche dei giocatori colpiti: essere danneggiati troppo alle gambe impedisce di correre, danni alle braccia rallentano gli attacchi melee e i tempi di ricarica.
Dopo un po’ di partite, il concetto di pesantezza inizia a intaccare la fruibilità del titolo e a svelarne i limiti. Ammazzare orde di xenomorfi è un gran piacere ma, a parte l’occasionale boss fight, Deathwing non offre molta varietà nello svolgimento dei livelli: tutto si alterna tra “correre fino alla stanza X, ripararsi dall’orda Y, uccidere il boss Z”, con livelli giganteschi e zone facoltative il cui unico scopo è nascondere reliquie che non danno benefit sostanziali da giustificare il tempo dedicato a cercarle.
Il bilanciamento è tremendo, a partire dalla difficoltà: se fino a difficoltà “normale” il gioco è anche troppo facile, dal primo gradino superiore diventa pressoché impossibile a causa della velocità con cui i nemici infliggono danni. Lasciano molto perplessi anche gli equipaggiamenti dei personaggi: il medico ha accesso esclusivamente a due armi da fuoco e due armi melee, ma tra queste ultime è incluso anche il dispositivo in grado di curare gli alleati, rendendo di fatto inutilizzabili le fondamentali abilità mediche. Anche gli equipaggiamenti esclusivamente corpo a corpo lasciano alquanto a desiderare: sono decisamente troppe le situazioni in cui non poter colpire il nemico a distanza rende veramente frustrante riuscire a proseguire, poiché sono molti e frequenti i nemici in grado di attaccare a distanza. Le torrette, inoltre, aiutano il giocatore solo ed esclusivamente se controllate in prima persona e mai se lasciate attive a sé stanti: tantovale distruggerle ed evitare di rimanere scoperti.
Quello che veramente delude, purtroppo, è il multiplayer. L’unica modalità di gioco offerta è la stessa campagna presente in single player, a cui vengono tolte le cutscene e le reliquie: ciò costringe, di fatto, a dover giocare per forza da soli se interessati alla storia. Inutile dire, poi, che tutti i difetti menzionati sul single player intaccano ugualmente il multiplayer, e data la difficoltà e l’assenza del teletrasporto d’emergenza alla base, giocare con meno di quattro giocatori è morte garantita. Non parliamo poi dell’inutilità totale delle torrette, che in questo caso possono essere solo distrutte.
Spacehulk: Deathwing è un titolo paradossale: lì dove l’esperienza single player, pur con evidenti limiti, può risultare piacevole, in multiplayer, dove dovrebbe dare il meglio di sé, risulta castrato. Dopo anni dall’uscita di titoli come Left 4 Dead e Destiny risulta incomprensibile perché un titolo che dovrebbe nascere come esperienza prevalentemente online venga decurtato di feature rilevanti ed esclusive del single player, non offrendo pertanto nulla di più ma solo caratteristiche in meno che fanno pesare ancora di più il già discutibile bilanciamento del gioco. Ottima grafica, bellissima atmosfera, alta fedeltà e autentico feel Games Workshop sono cose che fanno gioire, ma non bastano a far decretare Deathwing come il Left 4 Dead di Warhammer 40.000 che tutti aspettavamo.
Pro
- Elevata cura dei dettagli grafici
- Atmosfera Warhammer pienamente azzeccata
- Fan service di alto livello
Contro
- Bilanciamento della difficoltà terribile
- Bilanciamento delle armi e abilità terribile
- Bilanciamento modalità di gioco terribile
- In altre parole: terribile