Nobody Wants to Die RECENSIONE | Un neonoir investigativo su binario
Di linearità nei videogiochi si discute quotidianamente, e ci sono generi e IP che fanno del proprio essere “spalancate” a livello di libertà di gioco un vero e proprio sigillo di qualità, dai vari open-world ai sempre efficaci life sim. Non c’è protagonista senza antagonista, ed ecco che all’altro lato di questo parametro di libertà troviamo i walking sim, ad esempio, come il più recente Still Wakes the Deep o l’ancora straordinario Everybody’s Gone to the Rapture.
Uno dei generi che, sulla carta e in altri media, ha più senso sia trasposto con il maggior senso di libertà interpretativa e d’azione possibile, è quello investigativo. Sì, in parte Detroit Become Human ci aveva fatto assaggiare il potenziale di un vero investigativo a scelte, ma solo Shadows of a Doubt (qui recensito sempre da me) ha davvero tentato di riscrivere le regole, dando a chi gioca talmente tanta libertà da quasi costringerl* più a sbagliare che a trovare davvero il colpevole.
Nobody Wants to Die RECENSIONE | “La pioggia sbatteva sulle finestre dell’appartamento con l’aggressività delle urla di un innocente che brucia…”
Su Nobody Wants to Die non c’è stato molto rumore, prima dell’uscita a sorpresa di qualche giorno fa, e solitamente questo è sintomo di un titolo un po’ insicuro di sè, della sua target audience, e della sua promessa ludica. Devo però confessarti con piacere che Nobody Wants to Die è un titolo interessante, tecnicamente e narrativamente convincente, purtroppo affossato da limiti di design che vorrei onestamente vedere risolti in una prossima opera di Critical Hit Games. Vediamo insieme cosa funziona e cosa non, di questo titolo pubblicato da Plaion.
Un aspetto di Nobody Wants to Die che sicuramente non rimane incognita a molto è il suo profondo e reiterato rispetto per l’iconografia, i toni e i contenuti delle avventure noir, con detective duri e arruginiti da una vita fin troppo immersa nei vizi, una femme tanto micidiale quanto seducente, e un misterioso omicidio che, più che la quotidianità della violenza, racconta il marcio che c’è dietro istituzioni, benefattori e filantropi. Nei primissimi minuti di gioco ci ritroviamo catapultati in un contesto sì dai toni noir, ma trasportati 300 anni nel futuro.
There is always a lighthouse, there’s always a man, there’s always a city.
Ci stiamo guardando un vecchio film in bianco e nero, dentro la nostra Pierce Silver Arrow in perfetto stile anni ’30, ma presto l’inquadratura si muove, apriamo il portellone e… siamo in volo, sopra e sotto una New York futuristica e sul limite “al di quà” del cyberpunk, con titanici complessi immobiliari dei quali è impossibile mettere a fuoco le fondamenta o i piani più alti. Dopo un dialogo con un comprimario che ci fa capire, sin da subito, che qualcosa nella mente del nostro protagonista non va, è ora di andare ad indagare.
È stato ucciso un tizio famoso, ma è tutto un po’ anomalo: nelle metodiche dell’omicidio, nel fatto che il killer sembra non aver lasciato tracce, e quella cassaforte vuota davvero non la si può spiegare. Purtroppo è qui che si manifesta una delle prime frizioni di Nobody Wants to Die. Di fronte ad un mistero così interessante e complesso è inevitabile voler scoprire la verità ma, come sa chi segue le strutture narrative degli investigativi più di successo, ci sono due modi operandi: il metodo seriale a là CSI, dove chi guarda arriva alla soluzione giusto un paio di minuti prima dell’investigatore, o il “metodo Christie”, dove la verità è quasi sempre oltre la distanza che il nostro intelletto può raggiungere, con gli indizi che ci vengono forniti.
“Handholding” è la parola chiave
Nobody Wants to Die prende in questo contesto una scelta coraggiosa ma che mostra – troppo – i limiti del videogioco: il titolo di Critical Hit Games sembra da un lato, quello narrativo, correre sempre più veloce di chi sta giocando, dall’altro si rifiuta di mollare la mano di chi quelle meccaniche le vorrebbe esplorare in relativa libertà.
Su un piatto della bilancia una libertà interpretativa che non premia poiché, nonostante i bivi (di cui solo uno davvero significativo), la risoluzione del mistero deve sempre distaccarci di metri e minuti, sull’altro piatto una costante costrizione di meccaniche delle quali non siamo mai davvero protagonisti e proprietari.
Grazie a diversi strumenti più o meno intuitivi siamo infatti in grado di scannerizzare pareti e pavimenti alla ricerca di cavi e circuiti, rintracciare traiettorie balistiche e, meccanica inizialmente molto curiosa, usare un bracciale che ci permette, tramite l’analisi e l’integrazione di indizi ambientali, spostare la scena del crimine indietro nel tempo per riuscire a capire al meglio cosa può essere successo. È una capacità che, anche in un mondo così antiteticamente futuristico, ha ripercussioni importanti su moltissimi aspetti della giurisdizione, della quotidianità, e in generale della vita di un presente così “potente” tecnologicamente… però Nobody Wants to Die non la esplora.
Tornando alle meccaniche, Nobody Wants to Die sembra il tipo di esperienza che potrebbero provare i figli giovani di una o un gamer, tutti intenti a schiacciare tasti in continuazione ma inconsci che quello che succede a schermo sia responsabilità di qualcun altro. Giocando a Nobody Wants to Die sembra davvero che il controller sia in mano a qualcun altro, sensazione che permane per tutte le 5 ore di gioco e che legittimamente risolleva spinosa questione: un gioco senza vera interattività è da considerarsi gioco?
Sembra un bracciale ma è una manetta
Non c’è libertà in Nobody Wants to Die, ed è un mattone dell’impianto ludico sicuramente sarcastico ad analizzarsi, dato che il titolo mette in tavola, fra gli altri sintomi di una questa potenza tecnologica che l’empatia l’ha lasciata a marciare in cantina, l’introduzione di quello che forse è l’aspetto più interessante, a livello di lore, del titolo. La morte quasi non esiste più. Siamo in grado di trasferire il nostro io all’interno di un altro corpo, un corpo nuovo, nei corpi di chi non si può economicamente permettere di comprare il “veicolo” della sua prossima vita. È la terza vita anche per noi, in fondo, e chi ha davvero voglia di vivere 300 anni se quello che davvero ci si guadagna sono altri decenni a tentare di risparmiare il giusto per il corpo successivo.
Sicuramente sei in grado di percepire il potenziale narrativo di una premessa così, di questa immortalità scientifica inglobata dalla techbro-aggine di qui sono oggi pieni alcuni specifici social, ma tutto rimane, nuovamente, solo e fermo lì, nel suo potenziale inespresso. Come investigativo da vivere al limite della passività Nobody Wants to Die sicuramente è in grado di accontentare, ma il messaggio di fuga dalla prigionia capitalista, ora legittimamemente pluricentenaria e letteralmente immortale, tende a sbiadirsi e diluirsi, fra un treno narrativo troppo aggressivo nella marcia e un comparto di design più ostentato nell’esibire che nel permettere.
Le 5 ore fluiscono abbastanza rapidamente, ma rimane costante la sensazione – forse la voglia o quasi sicuramente il bisogno – di non essere ancora arrivati al momento in cui finalmente saremo liberi. Lo si aspetta, lo si anela, e poi… il gioco finisce.
Anti-kalokagathia
Se a livello di design e libertà di gameplay non posso trovare facilmente pregi da urlare a squarciagola, a livello tecnico Nobody Wants to Die è piuttosto lineare nella sua qualità tecnica: riflessi, fotografia, ritmo dei dialoghi, doppiaggio. Sono tutte cartucce legittimamente inaspettate sulla carta, ma logiche in funzione della linearità interattiva del titolo.
Gli ambienti sono molto curati ed esteticamente memorabili, in particolare una sorta di versione futuristica di Central Park che parla molto più di noi ora, di quanto fa di un noi futuro, ad un sospiro dal disastro ambientale. Sono molti gli elementi di Nobody Wants to Die che posso definire “evocativi”, ed è un costante peccato che il gameplay non tenga testa al resto dell’opera.
Il motivo è forse da ricercarsi nella voglia di raccontare una storia dall’estetica ben precisa, che inizi da un definito Punto A per finire ad un definito Punto B, ed è comprensibile che, sugli scalini di questo altare, sia propria l’incoerenza fra un gameplay rigido e una narrazione evocativa a dover lasciare il pegno di sangue. Quello che più fa male è che persino le fasi solitamente più divertenti degli investivativi, ossia quando, con tutte le prove davanti, uniamo i puntini e formuliamo una teoria, è tutto alla stregua di un’unica soluzione, un unico modo di fare le cose e un’unica assoluta verità.
Ed ecco di nuovo, reiterata come la violenza di un mondo in cui i ricchi vivono in eterno e i poveri in eterno soffrono, all’inseguimento dell’illusione di una redenzione sociale, che la trappola in cui finisce il nostro alter ego è un po’ allargata a noi, inconsapevoli complici di quell’Ouroboros non voluto, con in mano un joystick tramite il quale svolgere azioni senza vero significato, dimentichi dell’agency che altri titoli possono offrirci, affascinanti dalla femme fatale della qualità visiva.
Non è quindi un “No!” urlato o sussurrato il monosillabico responso di questa mia recensione, quanto un’alzata di spalle senza arroganza. Nobody Wants to Die è purtroppo un’occasione per ora sprecata, che coinvolge e avvolge su molti aspetti meno quello più evidentemente legato al medium che quest’opera la ospita: il videogioco. Se su questa base il team sarà in grado di cucire un secondo capitolo con più libertà di gameplay, potremmo essere davanti ad un titolo molto interessante e meritevole, ma per ora è un po’ uno di quei vecchi film, che guardi anche se immagini già come andrà a finire.
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Un titolo godibile e tecnicamente curato, appiattito da una struttura ludica molto su binari
Pro
- Tecnicamente bello da vedere
- Il comparto narrativo apre a interessanti discussioni
- Ha una durata godibile ed equilbrata rispetto all'offerta ludica
Contro
- Troppo su binari, davvero
- Un po' più di cura a livello di UX non avrebbe guastato (salvataggio manuale, scelta capitoli, ecc)