Little Orpheus – Recensione
Storia: narrazione sistematica di fatti, specie di vicende umane nel tempo; dal latino historia, dal greco historìa, derivato di ìstor (“colui che ha visto”). Le storie sono essenziali per ciò che siamo, come esseri umani: ci permette di imparare e ricordare allo stesso tempo; è un veicolo di insegnamenti, di miti, e di tutto ciò che, prima di noi, si è fatto e scoperto, ma anche l’espressione del potenziale di ciò che può essere e forse sarà.
Siamo esseri fatti di storie, insomma, e ogni storia ha un potere inimmaginabile, forse persino quello di salvare una vita.
Tutto potevi immaginare, ma dubito immaginassi questo come introduzione a Little Orpheus, titolo di The Chinese Room originariamente arrivato su Apple Arcade nel 2020, e ora rimasterizzato per PC (Steam, Epic Games Store) e console (PlayStation 4, Xbox One e Nintendo Switch). Fondato nel 2010, The Chinese Room è uno studio con sede a Brighton che ha già vinto diversi premi e ricevuto riconoscenze grazie a titoli del calibro di Dear Esther, Amnesia: A Machine for Pigs, e Everybody’s Gone to the Rapture.
Questa edizione “definitiva” di Little Orpheus arriva alla release con nuove texture, nuove animazioni ed un ovvio upgrade a grafica ed effetti visivi, ma ci sono 2 curiose aggiunte da menzionare: l’episodio 9, “A Rush of Onion to the Head”, e la modalità “Lost Recordings”, che aggiunge alcuni collezionabili sparsi per tutti i 9 livelli (e necessari per il platino, oltre che per sbloccare costumi aggiuntivi come Laika e un T-Rex).
Come sempre, un rapido accenno alla trama prima di dirti la mia su Little Orpheus: è il 1962, la NASA sta cercando di mettere piede sulla luna, ma, da qualche parte nella remota Siberia, un cosmonauta sovietico viaggia nella direzione opposta… verso il centro della Terra; lanciato con una capsula attraverso un vulcano estinto, il buon Ivan Ivanovich scompare per 3 anni, facendo infine capolino con una dichiarazione superlativa, quella di aver salvato il mondo.
Un po’, da queste mie parole, puoi iniziare a immaginare il tono dell’avventura che The Chinese Room vuole regalare, ossia quella di un’avventura fantastica a là “La terra dimenticata dal tempo”, con un pizzico di “Flash Gordon” e una goccia di Jules Verne, il tutto vissuto, pad alla mano, attraverso i racconti di Ivan Ivanovich, ora interrogato da un superiore apparentemente poco propenso alle fandonie di quello che ai suoi occhi è solamente un disertore.
Nonostante la divisione ad episodi, Little Orpheus mette da subito in tavola le sue carte: sarcasmo narrativo, ambientazioni coloratissime e fuori scala rispetto al nostro sempre minuscolo alter-ego, e lunghe sezioni di platform con piccoli puzzle ambientali qui e lì. Non aspettarti di più di un prodotto ben confezionato dove, molto di più della tua agency verso ciò che succede a schermo, conta il lasciarsi trasportare dall’artstyle e dalla storia che Ivan Ivanovich racconta, a noi e al generale che lo interroga.
Le avventure che ti aspettano sono folli, e piene di momenti WTF, ma senza mai abbandonare il tono divertito e divertente che i più attenti potrebbero facilmente ricondurre anche alle opere di Douglas Adams.
Impossibile anche non tracciare un confronto, sì più debole ma pieno di sfaccettature, con il rapporto fra Shahriyār e Shahrazād nel “Le mille e una notte”: noi (e con noi il generale che interroga Ivan Ivanovich, nostro alter ego) siamo il sultano violento che si libera delle sue mogli dopo la prima notte di nozze, Little Orpheus la cortigiana che tenta di ammaliarci e “allungare il brodo” per tenersi in vita il più possibile. Difficile non pensare all’intero mondo videoludico sotto questa lente, con noi giocatori e giocatrici come involontari (o consci) despoti di una coltre di videogiochi il cui unico scopo è divertirci e restare in vita nelle nostre console (e nelle nostre memorie) il più possibile.
È purtroppo a livello di meccaniche che Little Orpheus “arriva corto”, dato che gran parte delle mie ore di gioco (circa 5 per il completamento con platino) si possono riassumere con la spinta verso destra dell’analogico sinistro e randomiche pressioni del tasto X; i livelli sono scorrevoli, gli enigmi semplici e risolvibili con minimo sforzo, lo skill floor (ndr: il livello di skill minime richiesto al giocatore o alla giocatrice) molto basso ma perfettamente in linea con il target di giocatore casual al quale l’opera originale, uscita essenzialmente su mobile, mirava.
Little Orpheus è un ottima dimostrazione di come, spesso, un gioco abbia particolare senso nella piattaforma per la quale è pensato, e che perda qualcosa nella sua trasposizione altrove: ricordati di questo commento, perché si collega ad un’altra mia recensione in arrivo, una che ha a che fare con… scimmie a tre teste.
La durata degli episodi, che terminano sempre con un cliffhanger (presagio di un drastico cambio di location), è semplicemente ottima: abbastanza lungo da divertire e regalare un sorriso e una minima challenge, ma anche abbastanza corto da essere capace di non sottolineare eccessivamente la debolezza del core gameplay. Non c’è infatti nessun vero ostacolo al tuo progresso nel gioco, tanto che, dal punto di vista del design, mi sembra ovvio che l’intento del team fosse quello di farti vivere una storia con la presenza del minimo indispensabile di meccaniche, una sorta di fiaba per chi ancora sogna i misteri pieni di avventura che questo pianeta nasconde, magari proprio al suo interno.
Interessante anche la funzione “meta” dei collezionabili che potremo… beh, collezionare, dopo aver terminato una prima run del livello: oltre a sbloccare costumi, infatti, ci daranno accesso a bozzetti, studi di design e concept art/key art legati all’episodio in corso. Adoro e sempre adorerò questi dietro le quinte nel mondo del game dev, soprattutto di fronte a quotidiani esempi di come, del mondo del game dev, si sappia poco e presupponga molto, al di fuori di chi ci lavora e di chi, anche se con eccezioni, lo commenta.
Un ulteriore plauso va alla colonna sonora, dato che, l’avrai notato, raramente ne riconosco l’eccezionalità e l’unicità nei titoli che recensisco, ma in questo caso è impossibile non farlo, perché stiamo parlando della co-fondatrice di The Chinese Room, Jessica Curry, compositrice che oltre a vincere un BAFTA e averci regalato le splendide colonne sonore di Everybody’s Gone to the Rapture e Dear Esther ha suonato in location dal profilo elevatissimo, come la Sydney Opera House e la Royal Albert Hall. Nell’ambiente, Jessica Curry è semplicemente una certezza, al pari di Bear McCreary, Jeremy Soule e Harry Gregson-Williams (non nomino Uematsu perché lui è ai limiti dell’intoccabile – N.d.R.).
Il suo contributo aumenta l’immersione e il senso di meraviglia di fronte a quello che ci si mostra a schermo, andando ad addolcire efficacemente l’amara pillola della scarsa originalità espressa struttura dei livelli e della diversità dei “biomi” nei quali ci ritroviamo di episodio in episodio.
Little Orpheus sicuramente non brilla in quanto ad originalità, ma è chiaro che il vero pillar dell’esperienza che The Chinese Room vuole restituire sia la voglia di raccontarci una storia di quelle che da piccoli e piccole ci raccontavano i nostri genitori, o i nostri nonni: “quelle grandi storie, quelle che contano davvero, piene di oscurità e pericolo. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché”. La storia di Little Orpheus è sicuramente memorabile, e la colonna sonora di Jessica Curry ne amplifica il senso di meraviglia, peccato che nella trasposizione da mobile a console e PC un po’ dell’equilibrio di gioco si sia spostato ed esposto, tanto da mostrare il fianco di un gameplay ripetitivo e che regala poco all’esperienza di gioco, tutto relegato ad un semplice “andare avanti e saltare”. Un gioco sicuramente non imprescindibile, ma che non posso non consigliarvi di recuperare in futuro.
Pro
- Sembra una di quelle storie che ci venivano raccontate da piccoli/piccole
- Doppiaggio e soundtrack elevano di molto il prodotto
- Il gameplay è molto semplice...
Contro
- ...cosa che però tende a rendersi evidente sin da subito, tanto da arrivare a poco dalla noia
- Ha chiaramente la struttura di un gioco mobile, aspetto che diventa difetto nella sua traslazione ad ambiente console e PC