Ion Fury – Recensione
Il logo 3D Realms basta e avanza per soverchiare le leggi della fisica, e subito ci troviamo sparati a 88 miglia orarie a viaggiare verso il passato. Superato l’ostacolo legale del nome – e malamente persa la causa con la band di Steve Harris con il conseguente cambio di nome del gioco, originariamente battezzato Ion Maiden – Ion Fury irrompe nell’estate 2019 e ci riporta all’età dell’oro degli FPS.
Il transumanesimo è ormai sdoganato: gli umani trascendono l’intelletto, la psiche e le qualità fisiche tipiche della loro specie grazie a degli impianti cibernetici alla Ghost in the Shell. Non tutti i “potenziati” hanno intenzioni pacifiche e, in Ion Fury, il nostro compito sarà combattere i sovversivi a suon di armi pesanti.
Il mondo degli FPS si può generalmente dividere in due ere: prima e dopo Half-Life. Ion Fury appartiene al primo arco temporale, sebbene arrivi a noi con vent’anni di ritardo: stiamo parlando di un tempo in cui la trama non era al centro dell’esperienza di gioco, interamente creata con il solo scopo di rispondere all’esigenza dei giocatori di crivellare di proiettili ondate su ondate di nemici, senza troppi fronzoli. Wolfenstein, seguito a ruota dai primi due Doom (anch’essi approdati da poche settimane sulle console dell’attuale generazione), Rise of the Triad e Shadow Warrior sono i più lampanti esempi di questo periodo storico importantissimo per il genere.
E poi c’era lui: il Duca merita una citazione a parte, perché il suo stile scanzonato e irriverente, eguagliato successivamente forse solo da Serious Sam, ha definitivamente fissato nell’immaginario collettivo dei videogiocatori lo stato dell’arte degli sparatutto ore Half-Life. Ion Fury va rispettato anche solo per l’intento degli sviluppatori di portare sui moderni PC lo spirito dell’immortale Duke Nukem, da riscoprire o (perché no, se siete abbastanza giovani) scoprire per la prima volta.
Il gameplay è datato e, allo stesso tempo, moderno quanto basta: Ion Fury propone tonnellate di armi (e in giro per i livelli non mancano certo i proiettili) e altrettanti nemici su cui scaricarle. I livelli, dallo stile post-apocalittico con il giusto equilibrio tra fantascienza e cyberpunk, si sviluppano su più piani verticali e contengono la giusta dose di segreti e chiavi da scovare per proseguire oltre le porte chiuse, altro elemento caratteristico di Doom e Duke Nukem.
I più esigenti avranno da obiettare sulle armi che, a parte forse le granate, sanno tutte di già visto e non offrono particolari caratteristiche in grado di differenziarle tra loro abbastanza da apprezzarne la varietà. Vista la dichiarazione di intenti di Ion Fury, comunque, la cui unica missione è rendere omaggio al glorioso passato, la scelta di non innovare in questo senso ci sembra la più ovvia e apprezzabile.
Il feeling generale, più che Duke Nukem, riporta alla mente Rise of the Triad: l’atmosfera cupa e la reazione dei nemici ai proiettili sembrano presi di peso dall’esperienza di Apogee. Con il Duca, invece, Ion Fury spartisce l’irriverenza della protagonista: Shelly “Bombshell” Harrison (interessante l’idea di mettere una donna dietro la pistola) non perde l’occasione per sfottere i nemici con la sua lingua tagliente.
Nonostante ciò, dimostra comunque meno carisma e non riesce – né riuscirà – a farci esclamare “Hail to the Queen”, a dimostrazione di come per quanto l’età dell’oro degli FPS si possa tributare all’infinito, le sue icone immortali non verranno mai scalzate da una nuova leva, per quando caratterialmente azzeccata possa essere.
L’originale motore grafico di Duke Nukem ci sbatte subito in faccia la verità: quando un titolo è sorretto da un gameplay solido, non servono poligoni, effetti particellari e fotorealismo per renderlo dannatamente divertente. Ion Fury, primo titolo a basarsi sul Build Engine dopo 19 anni, stupisce e funziona: se siete disposti a chiudere un occhio su una palette cromatica a tratti un po’ troppo scura, vi ritroverete intrattenuti da una grafica retrò che ancora oggi funziona e fa la sua parte. Peccato solo per il character design dei nemici e la realizzazione degli ambienti: se le mappe sono ben progettate e gli antagonisti sono un omaggio ai classici del genere, al pacchetto generale manca quello spirito accattivante che ha reso grandi i più grandi.
Per farla breve, non basta un’insegna al neon se all’interno del locale non c’è una spogliarellista a cui infilare soldi nelle mutande: per le dieci ore di durata della campagna Ion Fury intrattiene, diverte, e fa addirittura scendere qualche doverosa lacrima di nostalgia, ma seppur avvicinandosi non supererà mai Doom II, Rise of the Triad e Duke Nukem 3D, che vi consigliamo vivamente di recuperare se volete davvero assaporare i fasti di un mondo tanto lontano quanto ancora incredibilmente attuale e divertente.
Ion Fury è un tributo agli FPS degli anni ‘90: irriverente al punto giusto, graficamente calzante e pieno di nemici da riempire di proiettili. Il gioco di 3D Realms è tutto questo, ma niente di più: la presenza dell’originale Duke Nukem 3D e dei primi due Doom (rilasciati giusto poche settimane fa su PlayStation 4, Xbox One e Nintendo Switch) sulle attuali console fa passare in secondo piano questa nuova incarnazione dello sparatutto pre Half-Life. Tuttavia, se siete alla ricerca delle emozioni di un tempo e avete già spolpato oltre l’osso i titoli classici, mettersi nei panni di Shelly sarà un valido passatempo per le vacanze di questa estate 2019.
Pro
- Tutto lo spirito degli FPS anni ‘90
- Gameplay frenetico e old style
- Graficamente il Build Engine sa ancora il fatto suo
Contro
- Il carisma non eguaglia quello dei mostri sacri del genere