Indiana Jones and the Fate of Atlantis – Recensione Indiana Jones and the fate of Atlantis
In principio fu la LucasArts
L’immenso impero fondato da George Lucas è ormai esteso in quasi ogni campo dell’intrattenimento: film, prodotti videoludici, action figures, serie televisive, fumetti, libri. Con saghe ormai entrate nella storia cinematografica e videoludica e personaggi divenuti un’icona nell’immaginario di innumerevoli ammiratori sin dal 1971, quando venne fondata la LucasFilm. Uno dei punti di forza della LucasArts, derivazione della LucasFilm, che si occupa dello sviluppo di titoli videoludici (anzi, si occupava, dal momento che la LucasArts ha di recente chiuso i battenti dopo essere stata acquisita dalla Disney), è sempre stata quella di occuparsi in prima persona dello sviluppo dei titoli tratti dalle sue opere cinematografiche. Una strategia che spesso ha permesso un’alta qualità delle trasposizioni videoludiche dei vari Indiana Jones, Star Wars e altri. Negli anni ’90, la LucasArts, insieme alla storica Sierra, era lo sviluppatore più famoso e più capace nel campo delle avventure grafiche. In quegli anni pubblicò titoli come i primi due Monkey Island, Sam & Max hit the road, Full throttle, The dig e Grim fandango, ormai considerati dei capolavori. Altra caratteristica della LucasArts è sempre stata la cura riposta nella complessità e profondità delle trame dei suoi titoli. Vivere un’avventura della casa di San Francisco significa ancora oggi immergersi in storie sempre innovative, divertenti, originali e spesso molto mature, degne di un film di alto livello (non a caso le sceneggiature di The dig, e, sembra, di questo stesso Fate of Atlantis, erano in origine destinate a titoli cinematografici). Nel pieno della sua influenza nel campo dei punta e clicca, quindi, la LucasArts, nel 1992, decise di produrre una nuova avventura dell’archeologo più famoso della storia del cinema, tentando di migliorare le meccaniche già sperimentate in Indiana Jones e l’ultima crociata, pubblicata tre anni prima e ispirata all’omonima pellicola. Noah Falstein, designer videoludico, e Hal Barwood, sceneggiatore che aveva già collaborato con Steven Spielberg (quest’ultimo da sempre grande amico e collaboratore di Lucas, guarda caso) alla sceneggiatura di Incontri ravvicinati del terzo tipo, scrissero una trama completamente nuova, che non avrebbe sfigurato in un quarto episodio della saga cinematografica del celebre archeologo.
Avventure archeologiche
L’avventura di Indy inizia nel 1939, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Un misterioso individuo di nome Smith possiede una chiave in grado di aprire un antico oggetto, e ingaggia il prode archeologo e il suo inseparabile amico Marcus Brody affinché ritrovino l’artefatto. Le ricerche conducono nei magazzini del Barnett College, dove i due amici lavorano come docenti universitari, e una volta che il nostro Indy trova la statuetta, il sedicente Smith si rivela essere ben altro che un pacato studioso di antichità. Dopo un’introduzione movimentata e molto cinematografica, Jones si reca a New York per contattare una sua ex collega (ed ex fiamma, tra l’altro), che si è riciclata come medium spiritica, e scopre che la statuetta, la chiave, gli interessi degli (immancabili) nazisti, e le motivazioni del falso Smith ruotano intorno al mito di Atlantide. Aiutato dall’affascinante medium, che sul continente perduto sembra saperne molto più di un intero team di archeologi esperti, Indy si mette sulle tracce nientemeno che del dialogo perduto di Platone, che dovrebbe contenere indicazioni molto più precise rispetto ai primi due testi del celebre filosofo greco, il Timeo e il Crizia. La decisione presa in un momento preciso della nostra avventura farà proseguire la trama su tre diversi binari (e relative diverse trame), che si riavvicineranno in un finale comune. Grazie a tali meccanismi (innovativi per l’epoca), alla supervisione di Lucas e Spielberg, e all’ormai collaudata capacità della LucasArts nel saper gestire una trama avvincente, il comparto narrativo di Fate of Atlantis risulta uno dei punti di forza del titolo.
Antichi enigmi a portata di click
La giocabilità di Fate of Atlantis è saldamente ancorata ai collaudati meccanismi del più puro punta e clicca tipico dei titoli LucasArts, e migliora nettamente il sistema di controllo già visto nella precedente avventura del professor Jones (The last crusade). Nella parte bassa dello schermo troviamo la classica lista di comandi Scumm familiari agli utenti già passati per i mari di Monkey Island e la villa di Maniac mansion. Una serie di parole preimpostate, come “dai”, “raccogli”, “usa”, “esamina”, ci permetteranno, con un minimo di pratica, di formare frasi abbastanza complesse e precise per guidare il nostro archeologo (e la sua coraggiosa compagna) nel corso dell’avventura. Il sistema Scumm è stato qui arricchito con tocchi di classe che ne migliorano la giocabilità (la scomparsa del comando “vai”, sostituito da un semplice doppio click), e ne sottolineano la cura maniacale della LucasArts per i particolari (nelle scene al buio, il comando “esamina” viene sostituito con un più realistico “tocca”). Altre attenzioni nelle meccaniche da parte degli sviluppatori hanno la funzione di evitare alcune delle frustrazioni sempre in agguato in questo genere di titoli. Se stiamo per abbandonare un’area lasciandovi un importante oggetto già usato, il nostro prode archeologo tornerà automaticamente indietro per raccogliere l’oggetto dimenticato. La gestione stessa degli spostamenti e dell’inventario risultano abbastanza veloci e intuitivi, con l’unica nota stonata degli spostamenti con mongolfiera e sommergibile (decisamente poso governabili) lasciando che l’utente si concentri sul vero cuore del titolo: gli enigmi. Questi non si allontanano troppo dalla tradizione delle precedenti avventure della LucasArts, e si passa dal classico “usa l’oggetto giusto nel posto giusto” (che comunque qui non è mai banale o scontato), fino a combinazioni di oggetti e giri di intuizione, passando anche per veri e propri enigmi geniali, molti dei quali legati alla scelta delle frasi giuste nei dialoghi. Gli enigmi sono quindi una fonte di gratificazione, mai di frustrazione (anche se a volte occorrerà veramente spremersi la mente), e la loro presenza è strettamente legata allo svolgersi della trama. La decisione di cui parlavamo poco sopra, infatti, non si limiterà a cambiare lo svolgersi degli eventi, ma avrà un peso sulla presenza di scene d’azione (una novità in un punta e clicca) rispetto agli enigmi puri, oltre ad aumentare il fattore di rigiocabilità del titolo. La modalità azione, con il solo Indy, vedrà una minore presenza di enigmi, al contrario della modalità ingegno (sempre con il nostro archeologo) che vede molti più enigmi, e infine con l’equilibrio garantito dalla modalità squadra, nella quale entrambi i protagonisti affronteranno un’avventura ben bilanciata tra scene d’azione ed enigmi.
Pixel, frusta e cappellaccio
Anche il comparto tecnico di Atlantis rimane fedele agli ottimi risultati delle avventure punta e clicca dei primi anni ’90. Gli scenari in cui si muovono i nostri due eroi sono gradevoli e ben definiti, con punte artistiche e persino tocchi di classe impensabili per l’epoca (nelle scene semibuie all’inizio non si distingue nulla, poi gli oggetti diventano lentamente visibili, un’ottima simulazione del naturale adattamento della vista al buio). Gli oggetti da raccogliere e utilizzare, come spesso accade nelle avventure punta e clicca più retro, risultano paradossalmente meglio visibili nello scenario, rispetto a quanto accade in molti titoli recenti, dove fondali realistici e oggetti definiti spesso si confondono. Nel complesso, l’aspetto prettamente grafico di Atlantis è invecchiato piuttosto bene, anche se non raggiunge le vette di genialità di Monkey Island e la poesia degli scenari di The dig. Spostandoci sul versante del sonoro troviamo forse l’aspetto meno curato del titolo. Pochi, ma utili effetti sonori fanno da contorno a una colonna sonora le cui musiche, fatta eccezione per il tema portante di John Williams, risultano alla lunga monotone e troppo squillanti. La versione da noi testata è su floppy disk, ma ne esiste una su Cd-Rom (come è accaduto per molte altre avventure LucasArts) con tutti i dialoghi doppiati.
Una bella avventura non invecchia mai
Cercare oggi dei virtuosismi tecnici in questo titolo sarebbe anacronistico e sbagliato. Anche se l’aspetto tecnico risulta ancora piacevole, Il fascino di Fate of Atlantis rimane legato esclusivamente all’ottima trama, al sistema di controllo intuitivo, ai riusciti enigmi e al fascino intramontabile di una LucasArts allora in stato di grazia e di una delle figure cinematografiche più famose. Un titolo non adatto a chi vive di pad e sparatorie, ma che andrebbe provato ancora oggi. Un altro nostalgico monumento a una casa, ora purtroppo chiusa, che con i suoi eccellenti punta e clicca ha saputo, insieme alla Sierra, rinnovare e portare a vette di eccellenza un intero genere videoludico.