Detroit: Become Human – Recensione
Accendiamo la PlayStation 4 con il Dualshock in una mano e i pop corn nell’altra: ormai sappiamo che quelli diretti da David Cage non possono essere considerati videogiochi nel senso stretto del termine, quanto più veri e propri gioco-film interattivi. Già in occasione di Heavy Rain e del successivo Beyond: Due Anime avevamo osservato come i titoli sviluppati da Quantic Dream fossero una sorta di darwiniana evoluzione dei vecchi punta e clicca, per non dire dei libri game e delle avventure testuali. Detroit: Become Human riprende e amplifica questi concetti, concentrandosi (maggiormente e per nostra fortuna) sulla solidità della componente narrativa, vero cuore pulsante dell’esperienza e in parte tallone d’Achille delle precedenti produzioni, purtroppo sofferenti a causa di qualche buco nella sceneggiatura.
È con queste premesse che ci siamo gettati a capofitto nel nostro viaggio a Detroit, con la sincera speranza che quella splendida tech demo di Kara si fosse evoluta nell’ennesimo gioco-film carico di emozione. Vi diciamo fin da subito che le nostre aspettative sono state confermate, ma solo in parte: come vi spiegheremo, Detroit: Become Human è un ottimo racconto, ma l’abbandono pressoché totale della parte ludica lo rende vulnerabile alle critiche di chi si aspettava che la strada intrapresa da Beyond potesse essere almeno in parte mantenuta.
Detroit, droid city
Così avrebbero cantato i Kiss se il loro famoso anthem hard rock fosse stato composto nel 2038: Detroit è sede della Cyberlife, azienda che nel giro di pochi anni ha sviluppato l’intelligenza artificiale perfetta, creando androidi dalle sembianze umane e mettendoli praticamente in ogni casa. Si parte dalla modica cifra di 899 dollari (ma se volete si possono anche noleggiare) per avere in casa il maggiordomo perfetto. Che vi serva un giardiniere, un operaio, una domestica o un “compagno di letto”, la Cyberlife ha pensato a tutto: potete andare tranquillamente nel negozio più vicino e ritornare a casa con il vostro androide nuovo fiammante pronto a spaccarsi la schiena al vostro posto.
Ora mettetevi nei panni degli androidi: è evidente che nessuno alla Cyberlife ha mai visto Blade Runner, Terminator, Metropolis o il più recente Ex Machina, perché qualsiasi scrittore abbia affrontato la materia ha sostenuto la tesi dell’intelligenza artificiale senziente. Quest’ultima si manifesta anche negli androidi di Detroit che, sempre più numerosi, acquistano coscienza di sé e pretendono il riconoscimento dei propri diritti, dimostrando di essere disposti a commettere crimini contro gli umani per ottenere il riconoscimento che desiderano.
Il giocatore vive l’avventura nei panni di tre androidi: Markus, un androide che accudisce un anziano e che viene ingiustamente accusato della sua morte; Kara, androide domestico in fuga con la sua giovane padroncina Alice, che veniva maltrattata dal padre; Connor, androide poliziotto appositamente creato per indagare sui devianti – così vengono chiamati gli androidi che sviluppano coscienza – e per fermarli. Come da tradizione, le tre storie sono apparentemente slegate ma, quando la trama inizia a dipanarsi, le strade dei personaggi si incontrano e i reciproci destini si modificano in base alle scelte che il giocatore è chiamato a compiere.
L’idea di base, di base inflazionata e sostanzialmente già vecchia ai tempi di Corto Circuito (e stiamo parlando della stagione cinematografica del 1986), è comunque ben raccontata e resa interessante dalla caratterizzazione dei personaggi e dall’empatia che questi fanno provare al giocatore, Kara e Alice in primis. Le tematiche trattate sono forti: la razza androide senziente è l’espediente per parlare di schiavitù, razzismo, violenza e paura del diverso. Peccato solo che, Kara a parte, i personaggi non siano carismatici come in Heavy Rain: l’empatia si crea, ma soltanto in alcuni sporadici momenti della storia. Rispetto alle opere precedenti di Quantic Dream, l’abbiamo già detto, la buona notizia è che la trama è più strutturata e – almeno nella nostra prova, in cui abbiamo affrontato una prima run tutta d’un fiato per riprendere poi bivi differenti nei punti più significativi e assistere ai numerosi finali – resta solida nonostante alcune delle scelte cambino radicalmente il destino dei personaggi e di conseguenza le scene mostrate.
Resta comunque il fatto che ci troviamo di fronte a una storia ben scritta ma priva di quell’originalità che c’era, ad esempio, in Beyond: fa un po’ ridere che a un androide bastino un paio di forbici per scollarsi dalla tempia il led che lo identifica come tale, permettendogli spacciarsi per umano, e lascia altrettanto perplessi come alcuni personaggi del gioco non si accorgano degli evidenti segnali che anche un sordocieco coglierebbe, sconvolgendosi alla scoperta che chi credevano umano è in realtà un androide. Stiamo volutamente nel vago per non rovinarvi la sorpresa della storia che, nonostante i numerosi finali offerti, presenta comunque dei punti fermi che non ci permetteremmo mai di spoilerare. Vi basti sapere che la trama regge e, pur non essendo memorabile, Detroit: Become Human è un buon racconto di fantascienza con numerosi colpi di scena e altrettante ore di divertimento.
Tante scelte, tante storie
Come da tradizione, il gameplay di Detroit: Become Human è ridotto all’osso ed è contraddistinto da momenti fissi: ci sono una (misera) parte di esplorazione, ci sono alcuni quick time event e ci sono le scelte. Sono queste ultime la vera caratteristica delle opere dirette da David Cage: bisogna fare o dire la cosa giusta al momento giusto, scegliendo in un limitato lasso di tempo e considerando quanto è successo nei capitoli precedenti. La decisione sbagliata – che più di una volta potrebbe sembrarvi quella giusta, ed è qui il bello – porterà al dipanarsi selvaggio della trama verso bivi imprevedibili, determinando la vita o la morte di protagonisti e comprimari.
Prima le buone notizie: alcuni capitoli, soprattutto quelli finali, offrono un ritmo incalzante e una serie di bivi davvero notevole. Questi ultimi si concretizzano in altrettante scelte morali che mettono il giocatore in difficoltà e stravolgono la storia e gli eventi successivi a ogni scelta in maniera più netta rispetto alle opere precedenti. Qual è la cattiva notizia? Se in Farenheit e Heavy Rain c’era la componente di novità, e in Beyond: Due Anime era presente il gameplay relativo al fantasma di Aiden che garantiva un minimo di enigmi e varietà, in Detroit si gioca troppo poco. La sensazione è davvero quella del film interattivo dove sì, le scelte morali sono in grado di far sobbalzare sulla sedia, ma allo stesso tempo alcune azioni sono quasi inutili e paiono essere messe lì apposta solo per non far sentire il giocatore spettatore passivo. Se un tempo il fattore sorpresa per l’approccio differente al classico gioco a cui eravamo abituati poteva far chiudere un occhio, oggi dopo che gli ottimi Until Dawn, Life is Strange e i giochi story driven in stile Telltale Games hanno dimostrato la maturità del genere è d’obbligo avere un approccio più critico, anche e soprattutto verso chi questa tipologia di esperienza l’ha inventata.
Allo stesso modo, nei rari casi in cui ci si trova a dover ripercorrere i propri passi e risolvere enigmi ambientali per non essere scoperti e catturati, gli aiuti in-game rendono il tutto di una semplicità disarmante. Chi ha giocato a Heavy Rain si ricorderà sicuramente la scena in cui nei panni di Madison bisognava cancellare le tracce del proprio passaggio o, nell’espansione The Taxidermist, esplorare la casa senza lasciare cassetti oppure oggetti fuori posto: in Detroit: Become Human ci sono scene analoghe, ma l’hud richiamabile con il tasto R2 dice sempre cosa fare, quante azioni ci sono ancora da portare a termine e quale obiettivo perseguire dopo. Insomma, una sorta di esperienza guidata che toglie quella patina di incertezza e rischio che si poteva provare soprattutto in Farenheit e Heavy Rain che, unitamente alla mancanza di gameplay attivo come invece c’era in Beyond, rende davvero questo gioco-film tanto film e poco gioco, annullando quasi del tutto la parte ludica dell’esperienza.
Dove il titolo guadagna è invece in longevità e rigiocabilità: ci metterete una decina di ore o poco meno a completare la prima run, ma la presenza di dettagliati diagrammi per ogni personaggio vi indicherà in quali capitoli vi sono finali multipli, spingendovi a riaffrontare intere parti di avventura, affascinati di fronte all’effetto farfalla che un singolo evento potrà generare. Per la prima volta è anche possibile scegliere il livello di difficoltà nel menu di gioco, in modo da facilitare o complicare i QTE e rendere più o meno semplice la salvare i vari personaggi. Non si tratta comunque di un’opzione in grado di variare sensibilmente l’esperienza nella sua interezza, diciamo solo che se siete veterani del genere fareste meglio ad aumentare il livello di sfida e la relativa pressione psicologica, giusto per evitare di arrivare ai titoli di coda e al finale migliore con troppa tranquillità.
Il fascino del 2038
Graficamente Detroit: Become Human non sfigura di fronte alle produzioni più blasonate degli ultimi anni, ma comunque non stupisce abbastanza da lasciare il segno e non preoccupa nemmeno da lontano Naughty Dog e il suo Uncharted 4, ancora oggi forse il punto più alto raggiunto da un comparto tecnico su PlayStation 4. Gli eventi atmosferici (con una neve che richiama tanto Farenheit), la Detroit del prossimo futuro e le ambientazioni sono discretamente curati, anche se i campi lunghi risultano essere un po’ troppo spogli e poveri di texture. Di tutt’altra fattura i tre protagonisti e i comprimari più stretti (compresa l’androide che vi accoglierà nel menu iniziale del gioco, una simpaticona con cui non perderete occasione di scambiare pensieri importanti): le espressioni facciali e le animazioni sono credibili e ben ricreate con il motion capture, come d’altronde ci aspettavamo. Su Playstation 4 PRO ovviamente le cose migliorano, anche se nell’ultimo capitolo dell’avventura abbiamo riscontrato un fastidioso glitch per cui in alcune inquadrature scompariva la pistola impugnata da un personaggio che ce la stava puntando contro. Una piccolezza di fronte al monumentale lavoro svolto nella realizzazione delle numerose scene di gioco, ma in un prodotto più vicino al cinema che al videogame è lecito guardare il pelo nell’uovo, soprattutto se come in questo caso ci troviamo di fronte alla quarta incarnazione di una tipologia di gioco nata ormai nel 2005.
Niente da eccepire per quanto riguarda invece il comparto audio e la relativa localizzazione italiana, entrambi cinematograficamente efficienti e in media con i precedenti prodotti Quantic Dream. Per chi volesse godersi l’audio originale, il gioco offre anche la possibilità di attivare o meno i sottotitoli e di sceglierne la dimensione, proprio per minimizzare l’impatto che questi potrebbero avere sull’esperienza cinematica: un di più, ma sicuramente un’opzione gradita.
Detroit: Become Human racchiude in sé l’essenza dei titoli sviluppati da Quantic Dream e diretti da David Cage: una storia interessante, personaggi carismatici con cui entrare in empatia, scelte morali e il relativo effetto farfalla che genera finali multipli per i singoli capitoli e per l’intera avventura. Peccato per la parte ludica dell’esperienza, mai come ora ridotta all’osso e messa in disparte, in favore di una storia sì d’effetto, ma a nostro parere meno ricca di emozione come lo era quella di Heavy Rain. Se giocate al genere dai tempi di Farenheit siete stati avvisati, ma allo stesso tempo sapete a cosa state andando incontro. Allo stesso modo, se cercate gameplay nel vero senso del termine sapete che dovete rivolgervi altrove. I giochi/film degli ultimi anni, Until Dawn e Life is Strange in primis, offrono un’esperienza più emozionante ed empatica. Peccato che i pionieri del genere non abbiano sfruttato appieno questa occasione, regalandoci un videogioco davvero troppo video e troppo poco gioco.
Pro
- Idea inflazionata ma storia comunque interessante
- Molti più bivi e più finali rispetto al passato
- Stavolta non abbiamo trovato buchi nella narrazione
Contro
- Qualche QTE, ma si gioca davvero troppo poco
- Graficamente abbiamo riscontrato qualche glitch
- Inferiore agli altri esponenti del genere usciti negli ultimi anni