Alone in the Dark RECENSIONE | La paura di essere sé stessi
Alone in the Dark è un titolo a cui sono profondamente legato. Chi mi conosce lo sa bene e sa bene quanta emozione, mista a curiosità e un pizzico di timore, ho provato avviando la prima volta questo nuovo progetto, l’ennesimo tentativo di risollevare un brand che, proprio come i suoi protagonisti, sembra in qualche modo maledetto. Lasciatemelo dire subito: sono fondamentalmente abbastanza deluso da questa nuova trasposizione dell’opera, anche perché ne conservo gelosamente un ricordo importante a livello affettivo. Alone in the Dark è un titolo pesantemente limitato e limitante, è vero, è un prodotto con tanti problemi e nemmeno nascosti bene, che ha finito con l’attirare su di sé una fitta nube di insoddisfazione e malcontento, specialmente al di fuori del nostro Paese, forse anche per le stesse ragioni affettive che hanno giocato un ruolo fondamentale anche nella nostra visione dell’opera.
Dopo aver (ri)vissuto di deliri di Edward Carnby, trotterellando senza sosta da un angolo all’altro della misteriosa, meravigliosa e angosciante Villa Derceto, sono pronto a parlare di quello che per me è senza mezzi termini uno dei giochi che maggiormente attendevo quest’anno, come dicevo in particolare per un discorso affettivo, ma anche per una questione di amore verso il genere. E, prima di continuare, anzi, prima di iniziare con la disamina, fatemi sottolineare proprio quest’ultima frase. Se siete appassionati del genere, quello “old style” per intenderci, probabilmente apprezzerete un pizzico di più l’offerta ludica della produzione. Alone in the Dark fallisce sotto tanti punti di vista, lo ammetto, ma per certi versi è riuscito a riportarmi indietro nel tempo, facendomi respirare nuovamente quella sana e meravigliosa impotenza che solo i survival horror sanno restituire, purtroppo però anche per ragioni non esattamente legate al volere effettivo degli autori.
Alone in the Dark: una storia reinterpretata piuttosto bene
Sarò sincero: l’aspetto narrativo di Alone in the Dark mi ha, nel complesso, soddisfatto abbastanza, per quanto comunque abbia mostrato il fianco a troppi momenti “morti”. La voglia del team di sviluppo di creare una narrazione di stampo più moderno adattandola a quelle che sono le tematiche dell’originale titolo del 1992 ha centrato per larghi tratti il bersaglio, ma in fin dei conti ha finito col frantumarsi su uno specchio di rimpianti, occasioni mancate e, soprattutto, contro quello che era un fardello pesante da portarsi dietro.
Del resto, e lo abbiamo visto più e più volte, riuscire a trattare il materiale originale a tema Alone in the Dark non è stato facile per nessuno, motivo per cui, ancora oggi, riuscire a riportare la serie al suo splendore originario è diventato un’impresa impossibile, o quasi. I ragazzi di Pieces Interactive ci hanno provato, hanno confezionato un’atmosfera ipnotica, che si appoggia su un numero importante di influenze esterne, confezionate ad hoc per rendere la nuova disavventura del detective Carnby una piccolissima gioia per gli occhi. L’incipit narrativo, poi, rende l’inizio della storia affascinante, oggi come ieri.
Il misterioso Jeremy Hartwood è sparito, smarrito in un luogo apparentemente meraviglioso, un piccolo paradiso, ma che in realtà nasconde un oceano di misteri e mostri sotto al letto. È qui che entrano in gioco i due protagonisti della storia: Emily Hartwood, la nipote di Jeremy e, appunto, il detective Carnby, ingaggiato da quest’ultima proprio per cercare di raggiungere il parente scomparso. Una volta raggiunto il misterioso Maniero Derceto, la storia si apre davanti al giocatore con una velocità impressionante. Sin da subito si comprende che gli abitanti della magione hanno ben più di qualche segreto e nascondono, in maniera anche nemmeno tanto convinta, una verità spaventosa, destinata a venire a galla, in un modo o nell’altro.
La scelta del cast risulta vincente
Da qui in avanti, la storia di Alone in the Dark prende una piega tutto sommato prevedibile, almeno nelle intenzioni iniziali. Carnby è deciso a fare luce sui misteri della magione e sulla sparizione di Jeremy, e vive a modo tutto suo l’avventura, spesso e volentieri anche combattendo contro le angherie e le battutine continue di Emily e degli abitanti del Maniero, che sembrano fortemente soddisfatti e appagati nel prendere di mira il malcapitato detective privato. La ricerca di Jeremy assume però, ben presto, dei risvolti completamente inattesi. Pur mantenendo inalterato quel taglio quasi “comico” di tante situazioni poi e con alle spalle una colonna sonora che sembra essere un continuo contrasto con i temi trattati, la storia affonda in molteplici ispirazioni: da Lovecraft fino ai più “moderni” X-files e finanche Twin Peaks, questo nuovo Alone in the Dark si racconta in maniera decisamente interessante, ma finisce col perdersi sul finale, in un modo quasi inspiegabile.
Non voglio entrare nello specifico, certo, ma devo ammettere che il brusco calo qualitativo che ho avvertito sul finale della storia, e in generale in tutta la seconda metà, mi ha un po’ disturbato. Va detto che la storia ha tanto da dire: il lavoro svolto nel creare tutto il background alle spalle di tutti protagonisti e anche dei comprimari è encomiabile, aiuta tantissimo a prendere familiarità con il mondo di gioco e con tutto ciò che ha da offrire, così come è altrettanto encomiabile la recitazione di David Harbour e Jodie Comer, perfettamente calati nei loro ruoli, nonché il simbolo di un progetto che da questo punto di vista non ha nulla da invidiare ai più grossi competitor.
Nel complesso, considerando anche le alterazioni narrative generate dall’impersonare l’uno o l’altro protagonista, è doveroso sottolineare che l’aspetto tematico dell’opera si difende piuttosto bene, almeno fino a circa metà storia. Come vi ho già detto poc’anzi, infatti, a un certo punto la narrazione inizia a smarrirsi, a perdere mordente e a risultare troppo confusionaria, ed è un gran peccato, perché il potenziale c’era e il materiale è stato trattato con una certa cura, almeno fino a un certo punto, cosa che rende la pillola un po’ più amara del dovuto.
Alone in the Dark ha un’esplorazione e una struttura di gioco molto canonica
Devo ammetterlo: i miei dubbi peggiori erano legati alla struttura di gioco e, per fortuna, mi sono dovuto ricredere. Pur risultando molto “vecchio” nella sua concezione, Alone in the Dark è un titolo con una struttura ludica interessante e, onestamente, funzionante, soprattutto se, come il sottoscritto, si è cresciuti a pane e survival horror. La formula ludica è molto semplice: analizzando una mappa, che cambia colore in base al grado di completamento di una determinata area, così come accade nei Resident Evil di Capcom, il giocatore è chiamato a esplorare ogni menando del Maniero, alla ricerca sia di Jeremy sia della verità che si cela tra le spaventosa mura che si snodano su un Bayou ricostruito con tutti i suoi crismi.
Da buon survival horror, il core del gioco sono sicuramente l’esplorazione e il puzzle solving, che risultano decisamente interessanti e appaganti. Il viaggio di Carnby ed Emily è costellato di enigmi, alcuni dei quali anche molto complessi, e nel complesso l’avanzamento è molto ordinato e sufficientemente divertente e riesce a soddisfare il palato di chi ha una passione viscerale per il genere in questione. Il livello di sfida in tal senso è molto ben bilanciato e la difficoltà degli enigmi si muove bene, di pari passo all’ avanzamento della storia. L’esplorazione, in ogni caso, non è mai fine a se stessa. La magione, infatti, così come gli altri luoghi visitabili (non sono tanti, onestamente) è sempre ricca di cose da prendere, segreti da scoprire e collezionabili da raccogliere, cosa che rende anche la doppia run decisamente interessante, per tutta la durata della storia, che ha una durata di circa 9-10 ore per ognuna delle due narrazioni.
Da buon survival horror, però, anche Alone in the Dark, per forza di cose, ha una doppia faccia ed è proprio in questo senso che è avvenuta una piccola tragedia. Premessa: Pieces Interactive è ancora un piccolo team e ha ancora tanto da dimostrare e gli auguro tutte le fortune di questo mondo. Fatta la doverosa premessa, è tempo di tirare fuori il problema peggiore di Alone in the Dark: il sistema di combattimento e il gameplay in generale. Se quello che accade al di fuori dagli scontri è tutto sommato passabile, quello che si palesa una volta imbracciata un’arma (specialmente quelle corpo a corpo) è veramente inspiegabile.
Un combat system a dir poco dimenticabile
Tra animazioni senza senso, una legnosità di fondo continua, hitbox poco chiare e una telecamera che fa di tutto per essere il tassello mancante di un mosaico confusionario e incredibilmente claudicante, il risultato complessivo non può che essere a tratti disastroso. In certi momenti abbiamo faticato a prendere la mira anche per colpire un nemico a poca distanza, siamo morti senza riuscire a difenderci dagli attacchi nemici a causa di un’animazione di schivata pessima e arcaica, che rende le fasi concitate un vero e proprio suicidio anticipato.
Dunque: perché non sfruttare l’ambiente o, magari, lo stealth per avere la meglio dei nemici? Ottimo, sulla carta, ma a livello fattuale è un altro piccolo suicidio. Queste due dinamiche sono infatti due piccole zavorre, per motivi diversi. Lo stealth è inserito male, a causa di nemici che hanno una soglia di attenzione spropositata e vi troveranno anche con un minimo suono riprodotto. Gli oggetti da lancio, invece, espongono il giocatore a doversi scontrare anche e ancor di più con la telecamera, ragion per cui, specialmente con più nemici a schermo, diventa un’arma a doppio taglio affilatissima e pericolosissima.
Anche dal punto di vista dell’utilizzo delle armi da fuoco, il feedback generale risulta molto deludente. A parte la scarsa varietà delle bocche da fuoco, quello che mi ha sconfortato è il feedback scarsissimo dei colpi. Che sia la mitraglietta o il fucile a pompa, poco cambia: Alone in the Dark restituisce sensazioni quasi nulle in termini di rinculo e credibilità e per quanto questi aspetti potrebbero risultare marginali o comunque “ignorabili” considerando la tipologia di produzione, la realtà dei fatti è che anche da questo punto di vista siamo di fronte a un lavoro troppo raffazzonato e superficiale.
Aspetto tecnico e artistico
L’aspetto su cui Alone in the Dark ci ha veramente lasciato l’amaro in bocca è quello tecnico, specialmente se paragonato ai buoni risultati raggiunti sotto il profilo artistico. I deliri creati dalla mente di Hartwood e Carnby hanno preso forma in maniera interessante, e quello stile anni 40’ ci ha sicuramente restituito uno scenario in cui perdersi volentieri e in cui anche quelle ispirazioni soft horror risultano un piacevole mosaico, ma è chiaro sin dalle prime battute che sono costretti a scontrarsi contro un vero e proprio muro, rappresentato da un comparto tecnico ai limiti del presentabile.
Soprattutto su console (abbiamo testato la versione PS5, ma abbiamo avuto modo di vedere anche un po’ la situazione su PC) il gioco si presenta caratterizzato da una mole poligonale incredibilmente scarna e, soprattutto, da una realizzazione raffazzonata, a partire dal design e dalle silhouette dei nemici. Senza andare a scomodare il fattore bug, glitch e problemi vari di natura tecnica, che posso subito dirvi che sono veramente tanti, continui e mostruosamente frequenti, è l’intera infrastruttura visiva del gioco a risultare un violento buco nell’acqua, specialmente se si vanno ad analizzare fattori come il frame-rate, l’ input lag continuo, le hitbox poco a fuoco e la quasi totale assenza di effettistica in alcuni ambienti, in cui sembrano completamente assenti elementi quali i giochi di luce, la densità poligonale e via dicendo.
Noi abbiamo testato il gioco, fondamentalmente, in modalità performance, e se da un lato ci aspettavamo l’abbassamento della qualità generale, dall’altra non ci saremmo mai aspettati di vedere un simile risultato sotto il profilo della stabilità e della quality of life generale. Anche il supporto a DualSense è praticamente inesistente. Il team di sviluppo non ha inserito alcune feature particolari per il pad di PS5, non che questo sia gravissimo, attenzione, ma tutto sommato ormai ci siamo abituati ai piccoli vantaggi del pad targato Sony che qui non abbiamo ritrovato in alcuna dimensione. A lavare la baracca, però, ci pensa il comparto sonoro. La soundtrack che accompagna l’avventura è decisamente intrigante, dona a tutto il viaggio un sapore per certi versi diverso, unico, e anche il doppiaggio si è rivelato di ottimo livello, capace di caratterizzare ancor di più un cast già di per sé di prima caratura.
Alone in the Dark è un progetto acerbo, per certi versi incompleto e che riesce soltanto in parte a dare la giusta collocazione, nel mercato ludico contemporaneo, a un brand importante e ricco di fascino. I ragazzi di Pieces Interactive hanno confezionato un survival horror conservativo e desideroso di omaggiare i grandi classici del genere, ma finisce con il presentarsi ai nastri di partenza con un gioco fondamentalmente nato già vecchio e superato sotto troppi aspetti. È un peccato, perché con qualche scelta di design più oculata e un po’ di tempo in più, magari, per perfezionare e limare l’aspetto tecnico si sarebbe potuto parlare diversamente di questo progetto che, ahimè, rappresenta l’ennesimo esponente del sempre più corposo gruppone delle occasioni mancate.
Un progetto acerbo, a tratti incompleto
Pro
- Cast di primissimo livello
- Storia riadattata in maniera intelligente
- Esplorazione ed enigmi di buona fattura
Contro
- Tecnicamente impresentabile
- Sistema di combattimento non all'altezza
- Troppo frettoloso sul finale
- La progressione dalle due storie non giustifica appieno la doppia run
- Bug e glitch costanti