Alone in the Dark – Recensione Alone in the Dark (1992)

Ricorreva l’Anno Domini 1992 quando i videogiocatori videro nascere un nuovo genere ludico. Questo genere era il survival horror, così successivamente nominato a seguito dell’uscita di Resident Evil nel 1996. Ma se fu il celebre primo episodio della saga della nipponica Capcom a coniare il termine, chi prima di lui, nel suddetto 1992, pose le basi? Semplice: la francese Infogrames con Alone in the Dark.
Al giocatore occasionale è molto probabile che quel nome faccia venire in mente l’omonimo titolo pubblicato nel 2008, che altri non è che l’ultimo esponente della saga. L’eredità era pesante: l’ultimo Alone in the Dark si proponeva al pubblico come una rivoluzione elevata tanto quanto quella del predecessore, con risultati che lasciarono l’amaro in bocca a molti fan di vecchia data, non risultando nemmeno troppo entusiasmante per i neofiti. Noi però non siamo qui per parlarvi di questo discutibile titolo, ma del capostipite e dei motivi che ne sancirono l’importanza per la storia videoludica.
 


Il male ha inizio

Alle origini del male

Tutti, o quantomeno la maggioranza, hanno in testa il medesimo concetto di survival horror: un gioco "da paura", ove lo scopo è di guidare uno o più protagonisti fuori da qualche situazione da incubo, raccogliendo oggetti per risolvere enigmi e armi per sopravvivere contro i mostri di turno, il tutto osservato e comandato tramite telecamere fisse negli ambienti. Sebbene negli ultimi anni il concetto sia stato abbandonato a favore di meccaniche d’azione in terza persona, per anni questa è stata l’unanime visione del genere.
Alone in the Dark si propone come un’avventura dalla pesante influenza lovecraftiana ambientata negli Stati Uniti degli anni venti: il giocatore impersona Edward Carnby, un investigatore privato, ingaggiato per indagare sul suicidio misterioso dell’artista Jeremy Hartwood nella sua proprietà, l’antica villa Derceto. In alternativa è possibile scegliere il ruolo di Emily Hartwood, la nipote, intenta a risolvere personalmente il mistero, ma la scelta di uno o dell’altro personaggio è ininfluente ai fini della trama, ed inoltre Carnby è l’unico protagonista che ha continuato ad essere una presenza costante nella serie.
Nella sequenza di apertura osserveremo Edward / Emily giungere al cancello della magione e percorrerne ingresso e corridoi fino a giungere alla soffitta ove l’avventura ha inizio. Il luogo ove riposa pacificamente un pianoforte diviene la prima prova di sopravvivenza: nel giro di un minuto, infatti, una creatura irromperà nella stanza sfondando la finestra, e poco dopo farà la sua apparizione anche uno zombie, sbucato da una botola. Esiste più di un modo per uscirne vivi: la poco onorevole fuga dalla stanza; affrontarli con il fucile che troviamo nel baule presente; un coraggioso confronto corpo a corpo o, più astutamente, piazzare un armadio di fronte alla finestra e spostare il baule sopra la botola, risparmiando qualsiasi tormento.


Quella maledetta finestra

La situazione sopra descritta dimostra tutto il potenziale del titolo: il giocatore di prima mano, ignaro di ogni minaccia, ha pochissimo tempo per osservare l’ambiente e scoprirne gli elementi utili alla difesa, quali il suddetto fucile, ed una volta colto di sorpresa è immediatamente chiaro come l’avventura sarà piena di sorprese. Viene da subito posta una base per la rigiocabilità: come detto, esiste anche l’alternativa di bloccare gli ingressi, opzione riservata ovviamente a chi già sa cosa aspettarsi. Degna di considerazione anche la possibilità di combattere corpo a corpo; sebbene difficile, poco pratico e ovviamente rischioso, il corpo a corpo (senza armi) è qualcosa che pare totalmente dimenticato in qualsiasi successivo survival horror – in quali Resident Evil o Silent Hill di vecchia scuola è possibile usare pugni e calci per difendersi?
Superata la prima fase, ha inizio il lungo dedalo per fuggire e salvarsi la vita. Il male costringe gli ospiti della villa a rimanere all’interno, e tentare di uscire dalla porta principale risulta fatale, obbligando così a dover indagare per scoprire la fonte degli orrori. E non c’è davvero nulla di prevedibile: chi si aspetterebbe che leggendo un libro maledetto si incorre in morte certa? Inoltra c’è da citare le tante caratteristiche "survival", tra armi che si rompono, munizioni scarseggianti e soluzioni alternative allo scontro in quasi ogni situazione.
Dall’originalità e profondità del titolo si evince come il genere survival horror in un certo senso sia decaduto invece che migliorato. Certo, sul piano scenografico non c’è paragone: persino il primo Resident Evil gode di una regia migliore di Alone in the Dark, ma se vogliamo metterla sul piano giocabilità ed innovazione esiste un vero e proprio abisso fra i due. E anche sull’atmosfera ci sarebbero da spendere alcune parole: non c’è cliché hollywoodiano che possa paragonarsi agli antichi orrori di Lovecraft.
 


Solo dei manichini?


In memorium

Una magione antica, un suicidio misterioso, luoghi segreti, antichi mali. Una perfetta atmosfera da horror lovecraftiano, minuziosamente programmata. Questo, signori e signore, è Alone in the Dark, capostipite di un genere e tutt’oggi in grado di sorprendere e inquietare, che ha insegnato molto e che ha tutt’ora da insegnare. Imperdibile per qualsiasi nostalgico.

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