Serie famose: la strategia dei seguiti nel mondo gaming.
Introduzione
Lara Croft è una bella ragazza.
Decine di modelle le hanno prestato il volto, Angeline Jolie l’ha fatta vivere in due (discutibili) pellicole, l’immaginario popolare si è pasciato per anni (e lo fa tuttora) al pensiero di una spericolata archeologa capace di dare del filo da torcere ai maschietti. Trionfo del machismo al femminile, i ragazzini (di ogni età) si sono alternati al joystick e alla tastiera per ben nove volte dalla sua nascita.
Ovvio che un personaggio che frutta decine di miliardi di dollari non può essere mandato in pensione.
A farne le spese, ovviamente, siamo sempre noi, amanti del gaming (PC e non), vittime di quello che potremmo definire "la Sindrome della Paura del Nuovo", che da decenni ormai affligge le software houses.
La Paura del Nuovo
Le software houses hanno essenzialmente tre possibilità per scongiurare il dimenticatoio per i loro cavalli di battaglia:
- La riproposta ciclica e ridondante su più piattaforme del loro prestigioso brand (il caso, appunto, di Tomb Raider, ma anche di Prince Of Persia, ad esempio) senza intaccare minimamente le caratteristiche primarie che l’hanno reso popolare;
- La riproposta diversificata per contenuto del brand (ottenuto per merito o per fortuna), che però non si identifica in un personaggio, ma in una serie (è il caso di Farcry, di Fallout 3 e di Crysis), dove resta il nome del prodotto, ma varia la sostanza del gioco;
- Lo sfruttamento di una licenza a cadenza periodica, molte volte legata ad eventi cinematografici o letterari (come Spiderman per Activision, Harry Potter per EA)
Ma procediamo con ordine.
Cosa resterà di questi anni ’80?
Nel caso di Tomb Raider, tutto. Purtroppo e per fortuna allo stesso tempo, anche se la fortuna è più (nel numero dei capitoli realmente riusciti) dalla parte dei producer che non da quella dell’acquirente. Nella mente e nella storia rimarrà il primo capitolo. C’era già tutto quello che serve per cucinare la ricetta Lara Croft: la bellezza, il gameplay, gli scenari, l’avventura, le armi, gli indovinelli. E il restyling del platform-game era servito.
Avevamo gridato al miracolo vedendo avanzare in terza persona, grazie ad un perfetto gioco di telecamere, quella ragazza armi in mano verso l’ignoto.
Avevamo sperato in un seguito e…non siamo rimasti delusi.
Cosa è cambiato in ben nove di questi (se contiamo anche l’adventure per DVD) che possa passare come memorabile? Nulla. Il gioco si è evoluto (ed involuto) seguendo le medesime leggi di mercato che hanno decretato la corona in testa alla tecnologia a discapito dell’originalità.
Quindi dire che il gioco è cambiato, che Lara Croft, come il Principe di Persia, possa offrire nel corso degli anni un’esperienza più matura, sarebbe errato. Infatti durante il susseguirsi dei capitoli (tralasciando l’gnobile Angel Of Darkness) possiamo notare un adattamento dei connotati fisici della ragazza allo stile socialmente imperante del periodo con una migliore implementazione dell’uso delle luci e degli effetti scenico-visivi, che portano Lara ad esaltare le proprie forme. Un aumento nella varietà delle armi e di come possono essere usate, il tentativo di adattare la sinergia oggetto (uso) – indovinello ad un gameplay più adulto.
Se analizziamo il balzo dal primo capitolo ad Underworld, la differenza maggiore la fa il sudore e lo sporco che potrete trovare sul corpo sinuoso dell’archeologa. Ora Lara potrebbe benissimo fare il paio con un giocatore di NBA Live e questo dimostra che il motion capture e la penetrazione dei sensi nella struttura corpo/virtualità colpisce indifferentemente qualsiasi genere videoludico (e non è necessariamente un male).
Insomma la Eidos perpetua il mito come strategicamente si deve fare. Un’idea originale, prigioniera di una macchina del tempo che continua a "rivederla" attraverso i lustri, mantendo il gameplay come punto fermo e facendogli ruotare intorno l’aggiornamento tecnologico che si deve adeguare alla macchina su cui gira.
Un ottimo esempio di Gaming Business.
Quando la fortuna ..
Caso diverso, anche se il risultato finale può apparire lo stesso, è quello che accade quando una software house detiene i diritti di un brand ma propone titoli legati ad esso di diversa estrazione. Il caso è più difficile e sottile da analizzare perchè meno evidente, ma tentiamoci.
La Ubisoft nel 2004 fece spalancare gli occhi dei player, umidi per la riconoscenza, con un fps capace di entrare nella storia. Il primo capitolo di Far Cry cadde addosso al colosso francese come un fulmine a ciel sereno, probabilmente andando oltre le aspettative, seppur alte, che si erano prefissi. Far Cry strabiliava per gli straordinari effetti grafici (mai acqua parve così vera), per l’intelligenza artificiale dei nemici, per l’azzeccatissima ambientazione tropicale e per la trama avvincente. Il mix si rivelò estremamente efficace, tanto che il producer ebbe il lampo di genio di voler ottenere a tutti i costi i diritti di quell’incredibile motore grafico sviluppato da un’anonima (fino ad allora) software house turco-tedesca: la Crytek, con il suo cryEngine.
Ora la realtà dei fatti vede Crytek firmare un contratto con EA, lasciando i lidi assolati di Far Cry per cadere nelle fosche boscaglie di Crysis. E per Ubisoft non è stata una sconfitta, anzi. Grazie all’acquisizione dei diritti Ubisoft spinge sull’acceleratore. Evita la bellezza da cartolina della serie rivale (nel senso che tutto rimane fermo, se avete un pc "normale", anche in Warhead, che sulla carta esigeva meno prolissità Hardware) e crea con l’ausilio di un team interno un capitolo che porta il nome della saga, ma di fatto distanziandosi dall’originale. Anche se al primo impatto potrebbe sembrare un seguito diverso solo per ambientazione, la Ubisoft sa bene che confrontarsi con un passato glorioso è sempre difficile, per questo decide di cambiare gameplay: Ora la struttura è più marcatamente open e le missioni da completare ne danno il flavour dell’action cinematografico che il buon Boiling Point non è riuscito a dare. Grafica, ritmo e ottimizzazione ne assicurano un nuovo successo.
Altro esempio di eccellente Gaming Business, come del resto (brevemente) quello di Atari. che grazie all’accordo con Bethesda si è vista recapitare a domicilio gli introiti delle vendite di Fallout 3. Interplay nel 2006, nel disperato tentativo di chiudere i debiti, cede tutti i diritti ai creatori di Oblivion, che sviluppano un seguito "ideale" che aggiorna la visuale isometrica e il combattimento a turni dei primi due ottimi capitoli con un gameplay moderno alla Elder Scroll, capace di tenere cari i connotati rpg dei predecessori ed aggiornarne le possibilità costruendoci intorno una trama complessa dalle mille dipanazioni. La saga quindi prosegue nonostante il cambio di publisher, di sviluppatore e di impostazione di gioco, ma la qualità rimane eccellente e l’Atari guadagna soldi e stima.
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Licenza di pubblicare …
Ultimo caso, ma non ultimo in termini di rendimento economico. Il mondo videoludico è sempre stato attento a quello che gli succedeva intorno alle affinità che commercialmente si potevano sfruttare da altri settori, come il cinema e la letteratura. Ormai è un dato di fatto che per ogni film o libro mass market si renda disponibile anche il gioco.
Uno dei casi eccellenti è quello di Activision, che grazie all’accordo con Marvel negli anni duemila è in grado di sfruttare la licenza legata all’immagine di Spiderman. E la sfrutta nel migliore dei modi (da un punto di vista business). E’ noto che rendere in videogame un film o un libro è una delle cose più difficili che programmatore possa affrontare. Questo per vari motivi, per i tempi ristretti, per il fatto di dover accontentare un target di pubblico più ampio possibile, e per la necessità di dover ricalcare, in un contenitore fisiologicamente diverso da quello degli altri settori, la trama senza stravolgerla (al limite prendendone spunto). Il novanta percento degli esperimenti che abbiamo visto avvicendarsi nella storia dei videogames sono state solo schifezze. Le licenze vengono generalmente sfruttate male, con approssimazione e poca convinzione, credendo che il solo nome del brand possa assicurare il successo economico anche al gioco. Ma sul lungo periodo, anche in epoca di sfrenato mass-market, perfino l’utente medio da licenza cinematografica si è fatto più scaltro. Ecco allora il naufragio di una marea di titoli decisamente ingiocabili.
Activision ha il merito commerciale di aver diversificato (nei limiti del possibile) il prodotto per tipologia e piattaforma. I capitoli che portano il numero dei film sono più che decenti action-game, specie il terzo, che affiancano una porzione di New York "open" (Manhattan, ad esempio), alla raccolta di missioni secondarie a fianco di una conosciuta trama principale, ad una frenesia real-time capace di tenere sveglio il player anche di fronte all’innegabile ripetitività del tutto. Il producer ha comunque battuto il classico ferro per non farlo raffreddare anche in ambito più "kids", con Friend or Foe (superiore per altro ai precedenti capitoli, ma con un target 7+ ed affiancando altri personaggi Marvel all’eroe principale) e rinnovando in parte il gameplay. Inoltre ha nobilitato le console portatili offrendo capitoli in esclusiva come Battle For New York. Ha attinto anche dalla serie a fumetti per offrirci Ultimate Spiderman (peraltro eccellente), ed ha prodotto anche giochi per il mercato mobile phone. L’ultimo capitolo (per ora) della saga, Il Regno Delle Ombre, è ancora una volta la dimostrazione che si possono proporre ottimi giochi "commerciali" senza cadere troppo nel banalmente scialbo.
Rendiamo quindi il giusto onore ad uno dei publisher più scaltri dei nostri anni, che nella giungla della difficoltà-licenza ha saputo produrre giochi e non prese in giro per gli utenti.
Conclusioni
Le serie nei videogames, ma un pò in tutti gli ambiti ludici, sono un male necessario. Sono figlie del commercio perennemente rese incinte dalla nostra voglia di sognare il ritorno dell’Eroe. Certo, molte volte manca il supporto della qualità, al sogno, ma altrettanto spesso ci basta guardare il sorriso di Lara per tornare bambini …