Psicologia e Videogame: Violenza e videogame
La relazione fra videogiochi e violenza considerato in maniera analitica, attraverso un puntuale riferimento all’evidenza scientifica e psicologica
Negli ultimi anni, complici alcuni fatti di cronaca eclatante, si è portati sempre di più a riflettere sul cosiddetto “volto oscuro dei videogame”. Concetti quali l’aggressività, la violenza, l’antisocialità, sono fenomeni molto diversi fra di loro, che condividono però la possibilità di nuocere a sé stessi e agli altri e che molto spesso, negli ultimi tempi, sono associati alla fruizione dei videogiochi. Tali tematiche, avendo un grande appeal mediatico, sono spesso strumentalizzate e utilizzate a conferma di stereotipi, pregiudizi e di un’antica paura nei confronti della tecnologia. Alla luce di questi presupposti, ci preme sottolineare che ciascuno degli aspetti che caratterizzano la relazione fra videogiochi e violenza deve essere considerato in maniera analitica, attraverso un puntuale riferimento alle specificità del caso singolo, così come alla ricerca e all’evidenza scientifica.
Per analizzare in maniera critica gli effetti nocivi che i videogiochi possono avere sui comportamenti dell’individuo, dobbiamo tenere in considerazione alcuni presupposti fondamentali: è necessario innanzitutto ricordare che il videogioco è un medium complesso. All’interno di questa categoria esiste infatti una profonda differenziazione, oltre che tecnologica, anche contenutistica. Negli ultimi anni, il mercato dei videogiochi ha accolto proposte di ogni genere, per persone di ogni età. Diciamo questo in quanto il concetto che deve essere sempre tenuto in considerazione quando si approcciano le tematiche riguardanti la violenza e i videogame concerne l’età dei videogiocatori.
La fruizione di videogiochi estremamente violenti come Grand Theft Auto V Mortal Kombat 11 o Resident Evil 2 Remake può, per esempio, incidere in misura significativamente diversa sul videogiocatore, a seconda che questi sia un bambino di 6 anni, un ragazzino di 12 o un adolescente di 17. Il fenomeno riguardante violenza e videogame è, probabilmente, di uno degli argomenti maggiormente trattati dalla stampa in relazione ai videogiochi, e una delle problematiche videoludiche più note anche alle orecchie dei non-giocatori. Negli Stati Uniti alcuni politici, anche di diverso schieramento, propongono continuamente interventi di gestione dei contenuti videoludici come aspetti importanti delle loro campagne, dall’introduzione di avvertenze fino alle proposte di vera e propria censura.
L’interesse della psicologia per i possibili problemi connessi alla violenza e videogame ha anche radici storiche e culturali. I videogiochi sono nati, infatti, intorno agli anni Settanta, contemporaneamente al consolidamento, nel contesto della comunità accademica, della Social Learning Theory come paradigma teorico. Questo concetto fa riferimento agli studi di Albert Bandura (1965), il quale spiegò per primo la capacità degli esseri umani di apprendere un comportamento attraverso l’osservazione del medesimo come messo in atto da un altro (modello). Negli esperimenti di Bandura, il comportamento appreso riguardava proprio condotte aggressive (i bambini soggetti dell’esperimento picchiavano un pupazzo dopo aver visto un adulto fare lo stesso).
Questi studi fornirono una base teorica importante alle proteste contro l’influenza dei media, i cui contenuti vengono ora considerati potenzialmente in grado di modificare i comportamenti delle persone nella vita reale, in particolare dei più piccoli. Craig Anderson, professore di Psicologia presso l’università dell’Iowa, è sicuramente il più severo critico dei videogiochi violenti, e ha prodotto un’importante mole di ricerca allo scopo di approfondire questo argomento.
Egli sostiene che i media possono generare aggressività in tre modi:
- Attraverso i comportamenti diretti: il contenuto violento è ritenuto in grado di causare direttamente l’imitazione nel fruitore.
- Attraverso il pensiero: il media violento è ritenuto capace di generare pensieri aggressivi, i quali in un secondo momento potrebbero a loro volta generare i comportamenti attraverso la generazione di script improntati alla violenza come stile relazionale.
- Attraverso le emozioni: l’utilizzo di videogiochi violenti produce nei fruitori innalzamenti significativi della pressione sanguigna e della sudorazione; tali attivazioni emotive possono persistere nell’individuo, portandolo a sentirsi aggressivo anche al di fuori dell’esperienza di gioco e a trasferire l’eccitazione negativa su stimoli differenti da quelli presentati nel mondo virtuale.
Queste forme di influenza sul comportamento sono potenzialmente comuni a tutti i media. Secondo Anderson, però, la violenza nel contesto dei videogame è più pericolosa per i seguenti motivi:
- Il videogioco è un processo attivo dove il fruitore non è solo spettatore, bensì esperisce direttamente e in prima persona i comportamenti nel mondo virtuale.
- Nei videogiochi a contenuto violento l’identificazione del giocatore è quasi sempre nel personaggio violento, che produce i comportamenti.
- I videogiochi violenti, di solito, premiano il comportamento violento, garantendo quindi l’instaurarsi di meccanismi di apprendimento intrinsecamente condizionanti.
Le concezioni di Anderson sono oggetto di numerose critiche, in particolare da parte di Christopher J. Ferguson, professore di Psicologia all’Università del Texas. Ferguson, oltre a rilevare lacune di natura metodologica e statistiche negli studi di Anderson, gli rimprovera di utilizzare metodi per la rilevazione dell’aggressività molto distanti dalle sue manifestazioni nella vita reale, non considerando adeguatamente variabili che intervengono in maniera molto più incisiva nei comportamenti aggressivi. Tra queste si segnalano:
- Gli aspetti di personalità
- Il background socio-culturale
- L’ambiente familiare
- Le caratteristiche genetiche dei soggetti.
Un grande numero di ricerche, inoltre, ha sostenuto un effetto opposto in merito alla violenza nei videogame, asserendo come i videogiochi violenti tenderebbero a ridurre l’aggressività nella vita reale. In generale, questi studi sostengono che la possibilità di sperimentare azioni violente nel virtuale consenta di sfogare eventuali istinti aggressivi, così da sentirsi portati ad evitarli nella vita quotidiana ( Colwell e Dato, 2003; Durkin, 2002; Unsworth, Devilly e Ward, 2007).
Per quel che riguarda i bambini, è riconosciuta grandissima importanza alla mediazione delle figure di riferimento (genitori ed educatori) nella fruizione di contenuti violenti. Proprio a partire da queste esposizioni controllate di violenza nei videogame, i piccoli giocatori possano comprenderne la portata e sviluppare il proprio giudizio morale.
Asserisce ancora Ferguson che nei videogame, inoltre, si assiste a situazioni ove l’aggressività è contestualizzata e autorizzata da personaggi che manifestano l’intenzione condivisa di impegnarsi nel conflitto e plausibilmente traggono entrambi piacere da esso, così come avviene negli sport di combattimento o nelle arti marziali (come la boxe e il karatè), ove la violenza è mediata da regole e spirito di lealtà. Alla luce degli ultimi studi scientifici, il ruolo giocato dalla violenza nei videogame nell’influenzare negativamente i comportamenti è quindi adeguatamente teorizzato, ma tutt’altro che dimostrato.