La legge del più forte – Sorprese e delusioni di primavera

Torna la rubrica di Salvatore

la legge del più forte copertina

Dopo qualche mese di pausa, dovuti a tanti impegni vari (e non solo), torna la nostra scottante rubrica La legge del più forte. Il nuovo form, dedicato ai giochi che più mi hanno sorpreso, ma anche deluso, della mia carriera videoludico è pronto a sparare altre nuove sentenze, alcune delle quali più imprevedibili di altre. Dopo avervi parlato di due dei giochi più sorprendenti, che ho scoperto veramente per caso e che non avrei mai considerato più di tanto, voglio spostarmi in una sorta di comfort zone, andando a trattare un titolo decisamente meno “sorprendente”, ma allo stesso strabiliante.

Anche per quanto concerne la sezione “negativa” del pezzo, stavolta ho giocato un po’ più sul sicuro, trattando un titolo che ha riscosso anche a livello generale un’accoglienza nettamente più tiepida rispetto alle aspettative della vigilia. Non per questo, però, il pezzo di questo mese è meno sentito. Anzi. In entrambi i casi, infatti, si tratta di tue titoli che hanno segnato in maniera pesante la mia vita da videogiocatore, lasciandomi un misto di emozioni positive e negative, senza freni.

In entrambi i casi, infatti, si tratta di due prodotti che per motivi diversi hanno saputo farmi rivalutare tante cose, mi hanno fatto scoprire nuove emozioni e, purtroppo, rivalutare alcuni aspetti del videogioco, almeno secondo i miei gusti. Grazie a questi due titoli ho in qualche modo messo dei nuovi standard ai miei desideri ludici, ho imparato a sfondare barriere culturali che non avevo mai avvicinato e, forse, ho anche capito che il tempo sta passando, anche per me.

la legge del più forte

La legge del più forte non fa sconti in casa Ubisoft: Assassin’s Creed Valhalla

Chi mi conosce, conosce bene il mio amore per la serie Assassin’s Creed. Nel corso degli anni, ormai tanti, ho fatto veramente di tutto per non perdermi nessun capitolo della serie, comprese tutte le varie Collector’s Edition arrivate a corredo, con buona pace dei miei risparmi. Ho passato veramente centinaia di ore in compagnia degli Assassini di casa Ubisoft. Ho platinato Assassin’s Creed; Syndacate, che reputo uno dei migliori esponenti della serie, ho rigiocato non so quante volte i primi due capitoli, e ho trascorso un numero indefinibile di ore con Origins e Odyssey, i due capitoli simbolo della piega più recente preso dalla serie, e anche quelli che ho apprezzato di meno.

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Oltre a ciò, chi mi sta vicino sa anche quanto sia profonda e radicata la mia passione per la cultura nordica. Miti, leggende, politica, religione, fino ad arrivare alla cosa più banale: il look. Negli anni, con l’avanzare dell’età, mi sono immerso sempre di più in questa cultura, fino a diventare una costante della mia vita (tutti i dispositivi che utilizzo hanno un nome a tema). Per tutti questi motivi, e non potrebbe essere diversamente, immaginate quanto hype avevo quando è stato annunciato Assassin’s Creed Valhalla. Un capitolo della serie ambientato nel cuore del cultura nordica: cosa potrebbe esserci di meglio? Purtroppo, però, la realtà dei fatti ha messo in luce una realtà ben diversa.

Assassin’s Creed Valhalla è, senza dubbio alcuno, una delle mie peggiori delusioni videoludiche, se non la peggiore in assoluto. L’ultimo capitolo della serie (senza contare Mirage) prima del neo-arrivato Shadows è, a mani basse, uno dei peggiori in assoluto, anzi, il peggiore. Almeno per il sottoscritto. Il titolo con protagonista Eivor non mi ha mai preso, sin dall’inizio. Non ne ho apprezzato la storia, che ho faticato a comprendere fino alla fine, non ho digerito la deriva presa sul piano del gameplay e, sinceramente, speravo soltanto che finisse quanto prima. Valhalla, senza giri di parole, è stato uno dei titoli che ho fatto più fatica a finire in tutta la mia vita, e l’ho fatto solo per amore del dovere e perché, onestamente, sono un po’ fissato con il lasciare le cose in sospeso.

Il videogioco cooperativo per eccellenza: It Takes Two

A un odio così profondo, va contrapposto un amore altrettanto importante. E, a essere onesti, parlando di amori videoludici non posso non parlare di It Takes Two, un titolo che ha completamente stravolto la mia vita da videogiocatore. Voglio essere sincero: non mi aspettavo minimamente di affezionarmi così tanto a un titolo del genere, anche perché non ho mai avuto a cuore questo tipo di produzione.

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Ho iniziato a giocare a It Takes Two per lavoro, non per gusto. L’ho portato in diretta su Twitch su richiesta di uno dei siti per cui scrivo (insieme alla mia compagna) quasi senza voglia, per poi rimanerne a dir poco estasiato. It Takes Two è un prodotto veramente strepitoso, sia sul piano narrativo e “morale”, sia su quello ludico. Ogni sezione, ogni livello, ogni boss, ogni enigma: ho amato ogni cosa del titolo di Hazelight Studios, che si è rivelato una sfida continua in termini di difficoltà di gioco sia e soprattutto un racconto di come si superano le difficoltà della vita di tutti i giorni.

Mi sono ritrovato immerso in una nuova dimensione videoludica, tant’è che il più recente Split Fiction è diventato uno dei giochi che più aspettavo di questo 2025 (con buone ragioni, poi, comprovate sul campo). Senza troppi giri di parole, It Takes Two mi ha insegnato a guardare oltre, a superare le difficoltà con maggior serenità e, soprattutto, mi ha insegnato che la vita non è fatta solo di routine e quotidiane abitudini ma che, a volte, può diventare meravigliosa anche se si prova a lasciarsi trasportare da qualcosa di nuovo, abbandonando così le barriere del pregiudizio.

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