Intervista a TiconBlu
Nell’ambito dei videogiochi, il nostro paese non è certo noto per la sua prolificità. Ma pensare che non esistano sviluppatori sarebbe errato, tant’è che recentemente abbiamo avuto modo di mettere le mani su Nicolas Eymerich – l’Inquisitore (a breve sarà disponibile la nostra recensione), avventura grafica disponibile su PC, Mac e iOS, prodotta dallo studio TiconBlu, software house bolognese fondata nel 2003 da Max di Fraia e Ivan Venturi. Questo ultimo fu impegnato ancora prima con Simulmondo, che i meno giovani ricorderanno soprattutto per una serie di avventure grafiche dei primi anni ’90 basate su successi fumettistici nostrani (e non) come Dylan Dog e Diabolik. Perché vi diciamo tutto questo? Ebbene, qualche giorno fa Ivan si è reso disponibile a farci visitare lo studio, concedendoci tempo per una lunga chiacchierata ed un’ intervista, che vi invitiamo a leggere qui di seguito.
GameSource: Cosa puoi dirci della storia di TiconBlu? Quando siete nati e di cosa vi siete occupati?
Ivan Venturi: Siamo nati 10 anni fa come Koala Games, che ha scelto di occuparsi della produzione di quelli che vengono definiti “serious games” (giochi educativi/formativi non finalizzati all’intrattenimento, ndr), il primo dei quali è Drive, videogioco per l’educazione stradale. Un semplice videogioco per PC, ma nato al momento giusto, perché l’abbiamo prodotto quando nelle scuole c’era l’esigenza dell’esame per il patentino del ciclomotore, e quindi propedeutico e pensato esattamente per quell’utilizzo, e che consentiva anche un grande risparmio per quanto riguarda la diffusione di materiali dal punto di vista scolastico.
Questo è il nostro ufficio storico, nato grazie anche ad un finanziamento del comune di Bologna. Nel 2011 abbiamo cambiato nome e siamo diventati TiconBlu.
GS: Quali altri sono i vostri prodotti?
IV: Abbiamo fatto diverse cose: il simulatore di educazione stradale si è evoluto in simulatore professionale (GuidaTuPro), abbiamo fatto prodotti per l’educazione della cittadinanza, un serious game sul mercato equosolidale, tantissimi advergame (giochi pubblicitari, ndr), cose che adesso facciamo molto meno perché possiamo permetterci di dedicarci solo a ciò che ci interessa di più, fra cui i videogiochi educativi per bambini. L’unica cosa che davvero non c’entra nulla con quello che facciamo noi abitualmente è Eymerich L’Inquisitore…
GS: Cosa spinge a creare una software house?
IV: Una software house è un’impresa, noi avevamo necessità di una società di capitale, ma dipende da cosa hai bisogno di fare. C’è sicuramente troppo pregiudizio e un po’ di inutile paura da parte di molti sviluppatori che vedono l’apertura della partita iva come un passo: partita iva e società sono scatole che devono contenere quello che fai. Non fai la società per fare il videogioco: fai il videogioco, poi la società.
GS: Cosa ne pensi del panorama videoludico italiano?
IV: L’Italia ha un problema sia di dimensioni che, fondamentalmente, storico. L’industria videoludica è nata abbastanza male, nel senso che mentre, per esempio, nel settore editoriale esiste lo scrittore, l’editore, il libraio, per l’industria videoludica c’è lo “scrittore” da una parte e il “libraio” dall’altra. Vecchi publisher come CTO erano biechi distributori, non c’era una volontà editoriale, e i videogiochi sono diventati in fretta qualcosa di costoso da produrre. Ad esempio, giochi come Dylan Dog e gli Uccisori costavano decine e decine di milioni, e c’era bisogno di un apparato economico per realizzarli. E poi c’è un problema di mercato interno, che è piccolino. Le cose sono cambiate ovviamente, ed anche se quello che vede di più la gran parte dei giocatori sono i prodotti tripla A, di aziende che fanno videogiochi in Italia ce n’è tante, da nord a sud.
GS: Ci sono tanti appassionati che vorrebbero diventare sviluppatori: che suggerimenti hai per loro?
IV: Io lo dico sempre, ma tanto poi non lo ascolta nessuno: fare i conti. Puoi essere bravo quanto vuoi, ma se con i tuoi amici ti metti a fare un MMORPG chiaramente fallirai, perché è il tipo di videogioco più costoso in assoluto; vuol dire non aver neanche lontanamente considerato ciò che possono essere le spese di mantenimento. Devi fare i conti, perché fare videogiochi è una cosa che richiede anni di lavoro. E non servono solo conti sui soldi, ma anche pianificazione: se fai un progetto che non ha un senso e non ha una fine, nessuno sarà disposto a finanziarti. Il videogioco è un prodotto come un altro: troverai fondi se dimostri che è qualcosa che può vendere. Serve un po’ di ottica da commercianti: anche se è fare videogiochi può essere particolarmente bello, ci sono spese anche basilari da sostenere, come bollette e affitto, e infine bisogna ragionare su quante copie può vendere. Se vuoi fare un videogioco di elfi che combattono con orchi ti scontrerai con altre migliaia di titoli uguali e il tuo videogioco non sarà promuovibile.
Inoltre in Italia manca la la figura del producer, dell’imprenditore che vuole fare soldi con i videogiochi: non c’è sufficiente cultura di impresa da questo punto di vista, perché ci sono tante nicchie dove si può lavorare con successo. Colui che dice “voglio fare un’azienda che crea videogiochi” dovrebbe pensare come prima cosa non al videogioco che ha in testa di fare, ma al videogioco che vale la pena fare, per capire se ciò che vorrebbe abbia un senso e sia vendibile. Non puoi iniziare un progetto e scoprire solo dopo che non è vendibile, o che costa troppo, rischi di buttare via anni di lavoro.
Ci sono momenti in cui bisogna sognare, ma occorre essere lucidi e non troppo romantici: fare videogiochi è fare un mestiere, prima di tutto.
GS: Parliamo del videogioco di Eymerich: come nasce l’idea?
IV: C’era una libreria che stava chiudendo e svendendo tutto, e tra le borse piene di libri che comprai c’era anche questo [prende in mano il romanzo “Nicolas Eymerich, inquisitore”]. Lo conoscevo vagamente, l’autore [Valerio Evangelisti] è di Bologna ma nonostante questo non sapevo granché. Così, l’ho impilato sul comodino insieme a tutti gli altri libri, finché non è capitato il suo turno e leggendolo mi di sono detto: “cavolo, è bello… sembra un videogioco… sembra *davvero* un videogioco…”. Quindi, mi sono iscritto alla mailing list di Eymerich: il primo giorno mi sono arrivate più di cento mail, scoprendo così che c’era una comunità densissima. A quel punto ho chiesto: “scusate, ma sapete se il videogioco di Eymerich sia mai stato fatto?”; mi rispose Evangelisti direttamente dicendomi che non era mai stata fatto, e che una società aveva preso i diritti ma poi era esplosa. Ho iniziato a interessarmi, sono diventato appassionato, ho iniziato ad andare ai raduni di Eymerich, ho conosciuto Valerio, e tra una cosa e un’altra siamo arrivati a parlare con il suo agente, e ci siamo ritrovati i diritti in mano – noi e Imagimotion, che realizza gli attori 3d, i full motion video e ha sviluppato inizialmente la prototipazione tecnologica. Abbiamo iniziato i lavori cinque anni fa, dopo che il nostro socio senior ha visto il progetto e si è entusiasmato. Poi siamo diventati TiconBlu, e la presenta del gruppo si è fatta più forte, perché avevamo iniziato una fase di finanziamento più consistente del progetto, che prima derivava semplicemente dagli utili. Quindi, il gioco è nato quasi casualmente, eppure ora è la cosa più importante che stiamo facendo. Ai posteri l’ardua sentenza.
GS: Come si pone la trama del gioco rispetto al romanzo? È necessario averlo letto?
IV: No, assolutamente. È stata completamente riscritta per necessità di medium, più che basarsi sul romanzo è liberamente “tratto da”. Prende a destra e manca da ovunque, ma la storia è completamente originale, questo in accordo con l’autore, poiché adattare la storia del libro non era così facile. Ad esempio, mentre il racconto è ambientato nel 1352, il nostro gioco è nel 1364.
GS: Sebbene l’avventura grafica sia probabilmente l’unico modo con cui rappresentare Eymerich, si tratta di un genere di nicchia: non è un limite?
IV: Il mercato del videogioco è enorme: anche se la visione generale è occupata dai blockbuster come Assassin’s Creed eccetera, un videogioco di nicchia può comunque trovare un mercato che vale ventimila volte il possibile fatturato. È veramente generalista parlare de “il mercato dei videogiochi”, è enorme, ci sono centinaia di mercati diversi. Persino i serious game hanno mille sottonicchie, da quelli di educazione a quelli ad impatto sociale a quelli di formazione aziendale…
GS: Quindi come sta andando, e quale versione tira di più?
IV: La versione che tira di più al momento è PC digital, ma anche Mac non se la passa male: ogni 3 versioni PC ce n’è una venduta su Mac, e non siamo ancora sul Mac App Store, su cui inizieremo da febbraio. Ci ha veramente colti di sorpresa anche iOS: una delle particolarità del nostro titolo è la totale accessibilità ai non vedenti, ed è incredibile quanti di essi usufruiscano di tecnologie come iPad e iPhone. Di solito, quando bisogna presentare un videogioco, ci si pone il problema di come promuoverlo al pubblico: nel caso del pubblico non vedente sono stati loro a cercare noi! Sapevano già di noi appena iniziati i lavori e chiedevano a gran voce di non togliere elementi come l’inventario e altre cose che mai avremmo pensato di conservare nella versione “ridotta” del gioco. Al momento, più di un acquirente iOS su due di Eymerich è non vedente.
GS: Chiudiamo l’intervista con una domanda di rito: che progetti avete per il futuro?
IV: Eymerich. Stiamo facendo un sacco di altre cose per l’ambito serious gaming, ma con Eymerich abbiamo scoperto davvero tante cose. Il nostro obbiettivo è costruire una serialità, e se le cose funzionassero non ci fermeremmo nemmeno ai quattro capitoli previsti. Ora come ora, vorremmo fare Eymerich per l’eternità.