Floppy Disk – PONG: 50 anni di videogioco commerciale
Il mercato dei videogiochi, la rivoluzione informatica e la Silicon Valley stessa ebbero origine da due racchette e una pallina.
Chi ha almeno trent’anni se le ricorda ancora: le buie e fumose sale giochi piene di suoni e luci elettroniche. Queste oggigiorno resistono con le unghie e con i denti solo in sporadiche località turistiche o all’interno di quale locale di bowling, ma durante gli anni 80, quando i computer erano ancora visti dai più come oggetti alieni, rappresentavano il vero polo tecnologico delle città.
Ebbene, se vogliamo risalire al punto di origine, al vero zero del successo del cabinato da sala giochi, dobbiamo tornare al 1972 quando Nolan Bushnell mise in fila quattro lettere e battezzò la prima creatura videoludica di Allan Alcorn: PONG. Ma andiamo con ordine.
Atari si stava ancora leccando le ferite causate dal flop di Computer Space quando a Bushnell venne l’idea di creare un videogioco di corse. Il progetto era intuitivo e semplice, entrambi requisiti fondamentali la cui importanza era stata messa in evidenza dall’insuccesso del troppo complesso Computer Space: fornendo un tracciato e un volante, qualsiasi giocatore avrebbe saputo qual era il da farsi. Tuttavia, vista l’inesperienza nello sviluppo del giovane e inesperto Allan Alcorn, Bushnell optò per un progetto di più semplice realizzazione: un simulatore di ping pong. La parola chiave sarebbe dovuta essere una sola: semplicità.
Dopo tre mesi di sviluppo, Alcorn presentò a Bushnell e Dabney un gioco che superò tutte le aspettative grazie ad alcune azzeccatissime idee di gameplay che rendevano l’esperienza divertente e frizzante.
Man mano che la partita procedeva, la velocità della pallina aumentava gradualmente, dando un senso di progressione ai giocatori e incrementando via via l’adrenalina. Venne anche introdotta una meccanica che portava la pallina a deviare l’angolazione del rimbalzo a seconda del punto colpito sulla racchetta: più il punto era lontana dal centro della stessa più l’angolo era ampio. Con l’esperienza il giocatore poteva sfruttare questa caratteristica imparando a dare alla palla l’effetto desiderato e cercando così di spiazzare l’avversario. Inoltre alle racchette non era permesso di coprire lo schermo in tutta la sua altezza e lasciavano sempre all’avversario una percentuale di vulnerabilità. A essere sinceri quest’ultima caratteristica era in realtà un bug che venne però deciso di mantenere: oltre a rendere le partite più brevi avrebbe incentivato il pubblico a giocare di più per imparare a padroneggiare al meglio i rimbalzi e sfruttare quindi questa falla nella difesa nemica.
Una volta approvato, il gioco fu inserito in un cabinato su cui venne posta una grande scritta con il nome del gioco: “PONG”. Con buona pace del lungo manuale di Computer Space, Bushnell incise sulla struttura le istruzioni del nuovo gioco: “Avoid missing ball for high score”: “Non mancare la palla per fare il punteggio più alto”.
Il gioco era pronto, era il momento di trovare un’azienda che si facesse carico della produzione e della distribuzione. Mentre Bushnell prendeva appuntamenti con Midway e Bally, due aziende che trattavano flipper, Dabney chiese a Bill Gattis, amico e titolare del bar “Andy Capp’s Tavern”, di poter piazzare il cabinato di PONG all’interno del suo locale per testare le impressioni del pubblico. Visti i riscontri positivi dei primi giorni, in Atari produssero altri nove cabinati che piazzarono in altrettanti locali della zona. In pochi giorni il consumo di alcolici diventò di secondario interesse nei bar della Silicon Valley. Si formarono infatti lunghe file composte da inusuali frequentatori più interessati a provare quella che era diventata la novità del momento.
Nel giro di un paio di settimane Gattis telefonò a Dabney dicendo che PONG si era rotto. Accorso a fare manutenzione Dabney vide che il gioco non era guasto, ma le monete erano strabordate dalla scatola preposta riempiendo l’intero corpo del cabinato. Bushnell e Dabney erano entusiasti e sconvolti.
Non sono chiari i successivi sviluppi delle trattative con Midway e Bally: c’è chi dice che non credettero alle cifre ottenute dal gioco e liquidarono Bushnell dandogli del bugiardo, c’è chi dice che fu lo stesso Bushnell a volersi tenere PONG tutto per sé; fatto sta che Atari si trovò da sola e con pochi fondi a doversi occupare della produzione e distribuzione di massa.
Grazie a un finanziamento di 50 mila dollari della Wells Fargo, Atari prese un capannone e iniziò l’assunzione forsennata di manodopera a basso costo per la produzione massiva dei cabinati PONG. Erano gli inizi degli anni ’70 nella zona di San Francisco: chi era la manodopera a basso costo? Giovani hippies che ben presto presero l’abitudine di fumare spinelli e sballarsi anche durante gli orari di lavoro. Essendo anch’egli un hippie, Bushnell non cercò di fermare la cosa, anzi, istituì il così detto “party selvaggio” ogni venerdì sera in cui si fumava erba e si beveva birra. Inutile dire che Atari diventò l’azienda più desiderata da buona parte dei giovani della Silicon Valley.
La richiesta di cabinati PONG cresceva e alla fine del 1973 c’erano già oltre 8 mila macchine piazzate in tutto il mondo.
Il successo travolgente del gioco ebbe anche l’effetto collaterale di aprire la strada ai concorrenti, e Bushnell non era stato saggio quanto Ralph Baer (creatore della prima console della storia: Magnavox Odyssey) nel brevettare il proprio prodotto. Sorsero così centinaia di piccole aziende che iniziarono a distribuire la propria versione di ping pong digitale tanto da relegare il PONG originale al solo 15% del mercato. In particolare, un’azienda italiana riusciva a fare dei cloni talmente perfetti che riportarono il nuovo indirizzo della sede di Atari addirittura prima dei cabinati originali. Nonostante questo, Atari restava leader del mercato e macinava milioni di dollari, la maggior parte dei quali veniva reinvestito in ricerca e sviluppo di nuovi titoli per cercare di essere sempre un passo avanti alla concorrenza e spostare volta per volta l’attenzione verso qualcosa di nuovo.
In questo periodo particolarmente creativo, vennero realizzati numerosissimi giochi, alcuni dei quali ricchi di aneddoti interessanti. Fra questi vi è certamente “Breakout”: una specie di versione single player di PONG in cui il giocatore doveva far rimbalzare una pallina e rompere dei mattoncini posti nella parte superiore dello schermo. Il suo sviluppo venne affidato a uno dei tanti giovani hippie che lavoravano in azienda: il suo nome era Steve Jobs. Purtroppo però Jobs non era mai stato un genio dell’elettronica e girò il progetto a un amico di nome Steve Wozniak col quale stava collaborando da qualche tempo; i frutti di tale collaborazione sono storia.
Ricordate il gioco di corse accantonato anni prima da Bushnell in favore di PONG? Ebbene venne sviluppato e distribuito con il nome di “Gran Trak 10”. Peccato però che per un madornale errore di valutazione ogni cabinato venisse venduto in perdita, causando ad Atari un ammanco di 100 dollari per ogni macchina piazzata. Neanche a dirlo: Gran Trak 10 fu il cabinato più venduto del 1974.
Insomma, fra i costi di ricerca e sviluppo e grossolani scivoloni ogni anno Atari tirava a campare e si trovò più di una volta sull’orlo del fallimento mentre ai concorrenti bastava aspettare i nuovi giochi al varco per copiarli, distribuirli e fare soldi facili. Fra tutti i numerosi competitor però, uno in particolare riuscì a prevalere, diventando il vero antagonista di Atari: Kee Games, società fondata da un certo Joe Keenan che annoverava fra le sue fila alcuni ex dipendenti Atari. Kee Games riuscì a fare la sua fortuna e a differenziarsi dagli altri concorrenti non solo grazie alle ottime copie dei giochi Atari, ma anche per alcuni titoli originali che riuscirono a ottenere un buon successo. Tuttavia gatta ci covava.
Se in quel periodo si fosse passeggiato per la via dove abitava Bushnell ponendo attenzione ai nomi sui campanelli, accanto a quello del fondatore di Atari ne avremmo trovato un altro recante un nome ben noto; guarda caso: Joe Keenan. Come direbbe qualcuno: “Coincidenze? Io non credo” e in effetti non lo era per niente. I due si conoscevano bene e qualche anno prima Bushnell aveva proposto a Keenan di lasciare il proprio impiego in IBM per aprire una società di videogiochi a lui intestata. Atari si sarebbe fatta carico sia dei finanziamenti sia del personale, cedendo a Kee Games alcuni dei suoi dipendenti migliori. In questo modo Atari avrebbe potuto battere i concorrenti sul loro stesso terreno. E l’idea funzionò. Peccato però che alla fine del 1974 Atari era sull’orlo del fallimento (causa Gran Trak 10 ma non solo), mentre per Kee Games le cose andavano a gonfie vele. Per scongiurare il pericolo di chiusura si decise quindi di riaccorpare le due aziende, riportando in casa Atari capitali e personale.
Forte di queste nuove risorse acquisite il reparto di ricerca e sviluppo si mise nuovamente al lavoro, stavolta non su cabinati, ma su un mercato nuovo dove c’era un solo claudicante concorrente: Magnavox Odyssey. Ebbene sì, dopo aver rubato l’idea a Baer, Bushnell era pronto a rubargli pure il mercato.
Venne così creato un prototipo grande poco più di una mano che si presentava come un informe e contorto groviglio di cavi. Con questo, i vertici di Atari iniziarono a cercare un finanziatore ma, a causa dello scarso successo di Odyssey, in tanti furono portati a pensare che un prodotto casalingo non interessasse al grande pubblico.
Qualcosa cambiò quando il progetto venne presentato alla catena di supermercati Sears. La presentazione si svolse all’ultimo piano della Sears Tower davanti a buona parte della dirigenza e subito si incappò in un incidente tecnico: Home PONG non mostrava nulla a schermo. L’enorme antenna televisiva posta sulla sommità dell’edificio andava infatti a disturbare la frequenza video con cui PONG trasmetteva il segnale, frequenza prontamente modificata da Alcorn che poté così dare sfoggio delle proprie capacità di ingegnere e, allo stesso tempo dare il via alla presentazione che avrebbe portato la console nei negozi, anche se non nelle modalità che ci si aspetterebbe. Qualche giorno più tardi infatti Bushnell ricevette una telefonata da un dirigente di Sears che gli annunciò che il loro reparto di elettronica non era interessato a PONG, ma lo era il reparto di articoli sportivi… d’altra parte si trattava di una simulazione di ping pong.
Gli accordi prevedevano che Atari avrebbe fornito a Sears 75 mila unità per il Natale 1975 (una cifra esorbitante per la loro forza lavoro); inoltre avrebbe chiamato la console Tele-Games. Atari ottenne in via straordinaria da parte di Sears sia la concessione di mantenere il proprio logo sul pulsante di accensione, sia un prestito dalla propria banca per poter finanziare la produzione. Nei forsennati mesi seguenti l’intricato prototipo venne miniaturizzato in un economico e pratico chip, e partì la produzione massiva di Home PONG il cui ordine fu evaso da Atari appena in tempo.
Tutte le unità fornite a Sears andarono a ruba superando in pochi mesi quello che Odyssey aveva piazzato in tre anni e fornendo ad Atari introiti sufficienti a produrre Home PONG in autonomia.
Tuttavia gli sciacalli non tardarono ad arrivare, andando a smuovere oltre cento produttori che crearono altrettanti cloni della nuova creatura Atari. Le cifre erano però incontrovertibili: Home PONG era l’indiscusso leader di mercato e Atari la vincitrice della prima generazione di console.