Devil Never Cry: Lo stile è tutto
Per vendere nell’industria dei videogiochi servono tante cose: pubblicità, qualità, interesse generale ecc… Per diventare un’icona però ne bastano due: qualità e stile. Tanto stile. Pensando alla PlayStation 2, per esempio, ci viene in mente una delle più grandi icone che la magnifica console Sony ci ha regalato: Dante della serie Devil May Cry. In attesa del quinto, canonico capitolo della serie in arrivo a febbraio, vi proponiamo un percorso di riscoperta di ciò che il titolo è stato in passato partendo dall’argomento più importante correlato alla serie Capcom: come Devil May Cry sia nato e diventato una pietra miliare per il videogioco, fino a essere considerato creatore del cosiddetto “Character Action Game”.
Quindi mettetevi comodi e pronti a tornare indietro nel tempo, a quando Capcom rivoluzionava costantemente il mondo del gaming. Vi diamo il benvenuto al “Devil Never Cry: lo stile è tutto“.
Parlare di “stile” è come parlare di “storia”, questo perché ci sono tanti metodi per creare un proprio stile quanti ce ne sono di raccontare una storia. Si può creare una propria immagine tramite un ambientazione ispirata, dell’art design originale e caratterizzato, delle colonne sonore ben composte o persino dal tipo di narrazione che si sceglie di portare nel proprio prodotto. Devil May Cry fonda la propria iconica importanza sfruttando tutti questi elementi; eppure potremmo parlare delle magnifiche ost metal dei vari titoli, della narrazione deliziosamente ironica ma contemporaneamente acuta di “Dante’s Awakening” e delle magnifiche ambientazioni proposte da almeno 3 titoli su 4, senza però toccare l’elemento principale che rende il primo Devil May Cry una pietra miliare.
Siamo al tramonto di quello che ormai è il vecchio millennio, Capcom è ancora impegnata a contare i soldi incassati dai primi 2 titoli della serie Resident Evil quando incarica Hideki Kamiya, già direttore del fenomenale Resident Evil 2, di progettare un terzo capitolo. Qualcosa però andò storto, difatti Resident Evil 3 Nemesis non è il seguito che Capcom aveva previsto per la serie; il progetto di Kamiya era ritenuto troppo… diverso da ciò che la serie è sempre stata, sebbene all’epoca Resident Evil fosse ancora giovane.
Nonostante ciò i lavori non furono interrotti. Inizialmente Kamiya venne incaricato di produrre in quarto Resident Evil, ma anche in questo caso il progetto non riusciva a convincere. Fu allora che Capcom, con un coraggio e un’intraprendenza tipici della Golden Age videoludica, decise di dar via libera a Hideki Kamiya per trasformare l’originale Resident Evil 4 in una nuova IP. Dopo una totale risceneggiatura e qualche ulteriore anno di lavoro che spinsero il team a lavorare su Playstation 2, vedeva quindi la luce Devil May Cry.
L’impatto che questa nuova IP ebbe nel 2001 cambiò l’industria del videogiochi: Capcom riuscì a bissare ciò che Resident Evil fece qualche anno prima, creando un nuovo genere videoludico e imponendosi per anni come l’esempio da seguire nello sviluppare un action game. Tutto questo tramite due particolari elementi: il ritmo frenetico del combattimento e lo “Stylish system”.
Il primo elemento è ciò che, in primo luogo, ha portato al travagliato sviluppo di Devil May Cry. La struttura di combattimento del titolo era troppo veloce e coreografica per rendere il progetto un Resident Evil. Dopotutto Capcom aveva un idea precisa all’epoca di cosa volesse dalla sua serie principale, e sicuramente un gioco basato su adrenalici scontri all’arma bianca era troppo rischioso da concretizzare sotto il nome di una serie famosa per ben altro.
Giocare a Devil May Cry significa misurarsi con i nemici che ci si ritrova davanti, molto spesso senza nemmeno poter pensare a cercare una via di fuga. Questo concetto, molto distante dalla formula survival di Resident Evil, unito a una difficoltà abbastanza elevata già in modalità “normale” diede alla prima avventura di Dante il sapore di un Odissea. Un viaggio da portare a termine superando nemici possenti e inevitabili, usando i propri riflessi per sconfiggere i boss e non la propria mente per risolvere dei puzzle ambientali che permettono di annientare i propri nemici.
L’emblema di questo concetto è la battaglia con Nelo Angelo. Dopo 4 livelli di introduzione alla formula Devil May Cry, il gioco ti pone davanti un boss singolare. Un cavaliere in armatura della stessa stazza di Dante, con un moveset simile a quello che avrebbe il nostro protagonista utilizzando le armi di questo nemico. Si tratta di un primo esempio della “battaglia dei doppelganger” che verrà utilizzato spesso nei capitoli successivi, e per buoni motivi. Combattere contro un nemico della stessa stazza del personaggio controllato, in grado di fare le stesse cose e con una velocità di azione e reazione simile fa splendere il gameplay di Devil May Cry agli occhi di un nuovo giocatore della serie.
Nelo Angelo è forte, una distrazione può essere fatale sin dalla difficoltà “normale”, ma contemporaneamente è possibile affrontarlo a viso aperto, colpirlo prima che lui attacchi, schivare le sue mosse e renderlo estremamente innocuo. Ottenere un risultato tanto soddisfacente però non è facile, richiede concentrazione, studio dei pattern del nemico e dei movimenti dello stesso Dante, e tutto ciò entra in gioco costantemente nel sistema di combattimento di Devil May Cry rendendolo un gioco in grado di tenere sempre alta tensione e soddisfazione.
Ma la IP targata Hideki Kamiya non si ferma a questo. Ciò di cui abbiamo appena parlato non è altro che una mera base per rendere concreta la vera, grandiosa, visione di Kamiya: lo Stylish System. Il titolo di questo “Devil Never Cry” non è casuale, questo perché Devil May Cry è inseparabile dal concetto di “stile”, e ciò si riflette nel gameplay.
Completare l’avventura e superare ogni nemico è solo il primo passo nei Devil May Cry; rigiocare a difficoltà maggiore e migliorare è il secondo, ma il vero obbiettivo del titolo è concludere il gioco nel modo più figo possibile. Mentre si gioca ai Devil May Cry una barra di punteggio compare in alto a destra, indicando un grado che va da D a SSS: questa è la barra dello Stylish System, un infrastruttura di punteggio che ricompensa il giocatore in grado di essere più creativo e spettacolare possibile durante il suo playthrough. Lo Stylish System è ciò che ha reso Devil May Cry un fenomeno mondiale, ciò che ha creato una delle fanbase più devote in campo single player e soprattutto ciò che rende il primo titolo un imprescindibile classico.
Devil May Cry può essere giocato per decine di ore, nonostante la sua campagna duri appena 4 ore, grazie al sistema di continuo miglioramento del suo sistema di combattimento. Non è un power up che rende spettacolare il gioco, non è l’acquisizione di una nuova arma o l’iconico lanciarazzi di Resident Evil, il gioco migliora assieme al giocatore, portando quindi a qualcosa di nuovo nel mondo dei videogiochi. Certo ci sono altri titoli che diventano più adrenalinici e divertenti in base al livello d’abilità del giocatore, basti guardare Super Mario World o Super Metroid, ma nessuno era riuscito ad adattare questo concetto a un gioco 3D con le dinamiche ideate da Hideki Kamiya.
Il “Character Action Game” ha preso strade diverse da quella di Devil May Cry col passare del tempo; che sia la strada dello spettacolo cinematografico di God of War o l’adrenalinico sistema di combattimento basato sulle schivate di Killer is Dead. Bisogna però ricordare come l’intero genere sia partito da una scintilla, da un titolo leggendario, da un’avventura che si conclude in un certo bar chiamato Devil Never Cry.