Death Stranding: verso la recensione – O come…
Tutte le ispirazioni, reali e presunte, del titolo di Kojima Productions... con la lettera O.
Manca davvero poco alla conclusione di questo nostro percorso verso la recensione di Death Stranding, quindi non avete che da tenere duro ancora un po’.
O come Onfray
A discutere dei significati, impliciti e non, del viaggio, non ci sono solo storici e poeti, ma persino filosofi: oggi vi parliamo di uno di essi, Michael Onfray, che vede il “partire” come una sorta di ancestrale chiamata.
Viaggiare ha una basilare funzione formativa, poiché non solo impariamo qualcosa di nuovo sul mondo, ma finiamo per scoprire qualcosa di nuovo di noi stessi, qualcosa che fino a prima era lì, nascosto, celato alle nostre silenziose inquisizioni.
In questo Onfray riconosce una differenza essenziale fra il turista e il viaggiatore: il primo è deforme ombra del secondo, superficiale e sbiadita deformazione del concetto di viaggio, un ignorante a cui non interessa scoprire e che di conseguenza non scopre nulla, rimanendo nella sua becera e fangosa ignoranza.
Chi viaggia in pieno rispetto dell’arcaica e subconsciamente palese identità del vero viaggiare, si trova a rimettere in gioco la propria soggettività, ponendosi domande essenziali durante e alla fine del viaggio, domande che lo spingono all’introspezione mediata dalle esperienze in corso d’opera, un’introspezione che non può che portare a una anche minima evoluzione dell’Io, evoluzione forse chiave di volta del Death Stranding di Kojima Productions.
È una dicotomia ritrovabile persino in contesti biblici: se Abele era lo stabile agricoltore, felice della sua vita routinaria, organizzata, nelle righe, Caino è la sua perfetta antitesi, pastore nomade nei piedi e nei pensieri.
Sam di Death Stranding sembra un po’ a metà di questi due opposti, stabile nella sua convivenza con i ricordi e il dolore (di una perdita?), ma costretto a mettersi zaino in spalla per riconnettere il paese, forse spinto da una missione, forse mosso dalla certezza che ciò che lo aspetta è migliore di ciò che ha.
O come Ojibwe
Piccolo trivia che merita di essere condiviso: gli Ojibwe sono una tribù di nativi americani, originariamente localizzati nell’odierno Michigan e attorno ai laghi Superiore e Huron.
Furono questi cacciatori e coltivatori di riso e mais ad inventare l’acchiappasogni, “asabikeshiinh” nella lingua angolchina originale (“ragno”).
L’anello di cui sono composti è la ruota della vita, mentre la ragnatela rappresenta i sogni che creiamo nel sonno: al centro, il vuoto, il cosiddetto “Gran Mistero”, lo spirito creatore di tutto ciò che è.
Contrariamente a quanto si crede, l’acchiappasogni non serve solo a intrappolare i pensieri maligni, per poi farli svanire alla luce del sole, ma aiuta anche a mantenere vicine le energie positive.
La leggenda attorno alla nascita degli asabikeshiinh è molto interessante:
Esisteva una donna-ragno chiamata Asibikaashi, che si prendeva cura del popolo della Terra. La donna-ragno vegliava su tutte le creature del nostro mondo, affacciandosi sopra le culle e i letti dei bambini intenta a tessere una sottile, delicata e forte ragnatela, capace di intrappolare tutto il male tra i suoi fili e di farlo svanire all’alba. Quando il suo popolo si disperse nell’America del Nord, il suo compito di prendersi cura di tutti i bambini iniziò a complicarsi, per cui le madri e le nonne dovettero iniziare a tessere da sole reti dalle proprietà magiche, in grado di intrappolare i sogni negativi e gli incubi, per proteggere i loro bambini.
Molti dei trailer che abbiamo visto finora vedevano Sam indossare un acchiappasogni: quale simbologia deciderà di usare Death Stranding, secondo voi? L’originale opinione degli Ojibwe o quella dei Lakota, per i quali invece l’asabikeshiinh serviva a fermare i sogni positivi per farli colare sul volto di chi dorme e regalargli sonni tranquilli?