Death Stranding: verso la recensione – L come…
Tutte le ispirazioni, reali e presunte, del titolo di Kojima Productions... con la lettera L.
L’identità di Death Stranding è fortemente ancorata al concetto di viaggio, mentale e fisico, verso un sé diverso, migliore, più connesso al mondo.
In attesa della recensione del titolo di Kojima Productions, parliamo di nuovo di viaggio.
L come Leed
Si torna a parlare di viaggio, si torna a discutere delle sue inflessioni psicologiche.
L’uomo sembra primordialmente settato per avere radici, per sedimentare in un luogo e farne una casa, ma la natura maratonetica della nostra fisiologia ci suggerirebbe il contrario: uno dei motivi per i quali siamo finiti in cima alla scala evolutiva era la nostra capacità di regolare la temperatura corporea e di percorrere lunghe distanze, pur privi dello scatto felino di molti predatori molto più abili di noi nelle brevi distanze.
Il nostro corpo è fatto per viaggiare, psicologicamente, fisiologicamente, anatomicamente: la routine è uno status quo imposto dalla società, una finzione che è diventata realtà a forza di essere reiterata e vissuta.
È lo storico Eric Leed a confermarci quanto abbiamo già in parte affrontato in uno degli scorsi editoriali: il viaggio assume i contorni di un metaforico e fisico liberarsi di questi vincoli, un abbandono della quotidianità e delle abitudini per riscoprire la propria vera identità, non più soggiogata e plasmata dai dettami dell’ambiente in cui si vive.
Abbandonare anche solo temporaneamente la propria casa, il proprio paese, la propria ragnatela sociale, è origine e destinazione di un’evoluzione dell’Io, poiché il bisogno di viaggiare nasce quasi sempre da un desiderio di mutamento, da una necessità, come da Death Stranding: se da un viaggio non si ritorna in qualche modo cambiati, è stato senza senso e ha fallito il proprio scopo; se invece ha avuto successo, potenzialmente non termina davvero mai, perché anche nel poggiare il bagaglio fisico a terra, nella propria casa, la valigia di ricordi, sensazioni, emozioni, pensieri, quella non la lasciamo proprio più, è diventata parte integrante della fibra stessa del nostro essere.
I diari di viaggio sono proprio questo: calcificazione sulla carta e addensamento dei contorni della memoria di eventi e immagini che narrano tanto di essi quanto di noi stessi.
Potrebbe essere un mancato rispetto del secondo membro di questa delicata e imprevedibile equazione la ragione per cui molti open-world falliscono: chi tenta di riempire il mondo di storie finisce per non darci alcuno spazio per raccontare la nostra, chi invece ci consegna una “mappa” vuota sopravvaluta le capacità riempitive del nostro copione mentale in progress, capace di molto ma non di colmare una trama narrativa annacquata.
Death Stranding ha tutte le premesse per riuscire a piazzarsi in media, speriamo la sua virtus sia proprio lì.