Death Stranding: verso la recensione – I come…
Tutte le ispirazioni, reali e presunte, del titolo di Kojima Productions... con la lettera I
Sam, dove sei? Death Stranding è ormai alle porte, recensione inclusa, ma noi non desistiamo dal viaggio che abbiamo iniziato qualche giorno fa, nato per far luce nel buio delle mille ipotetiche identità del gioco di Kojima Productions.
I come Into the Wild
Sì, forse siamo davanti a una delle ispirazioni più assurde e ipotetiche, d’altronde cosa potrebbero mai avere in comune la storia degli ultimi giorni di Christopher McCandless e un gioco di Kojima Productions ambientato in un futuro post-apocalittico?
Be’, più di quanto appare.
Per chi lo avesse letto, il primo parallelismo tra il libro di Krakauer e Death Stranding si può ricondurre al fulcro narrativo, centrato in entrambi i casi sul protagonista e che vede la vita e le vicende degli altri personaggi solo come complessi corollari dell’avventura del protagonista stesso, analizzandone più il modo in cui loro influenzano lui e il suo percorso, piuttosto che in un vacuum relazionale: se l’insieme espositivo delle due opere è una ragnatela, è indubbio che siano Sam e Christopher quelli al centro di essa.
Per Christopher è chiaro fin da subito: è una scelta volontaria quella di lasciare una vita agiata per andare nelle terre selvagge, la soddisfazione di un profondo, forse ancestrale, bisogno di spazio, libertà, solitudine, il bisogno di riscoprirsi per ciò che si è e non per il ruolo di cui la società ci veste.
Viene da chiedersi perché invece Sam sia così: è forse un ascetismo coatto, magari causato dalla morte della moglie per causa sua?
È piuttosto una scelta volontaria, per astenersi da quell’evidente senso di vuoto in cui la nuova umanità giace, distopica realizzazione del pericolo già visto da John Donne e il suo “No man is an Iland”?
Platone vedeva l’ascetismo come l’unica via per il raggiungimento della vera libertà fisica e, da questa, quella mentale; è tecnicamente ottenuto attraverso dell’autoimposta disciplina e quasi sempre l’isolarsi fisicamente dal mondo è parte del percorso, matrice di una mutazione psicologica benefica grazie all’allontanamento dalle “tentazioni”.
Into the Wild ci racconta un ascetismo più moderno ed è in questo che possiamo riconoscere una grafia comune fra il libro e Death Stranding: Christopher e Sam esplorano il mondo, sì, ma non alla ricerca di un significato recondito di ciò che esiste al di fuori di loro, quanto piuttosto si ritrovano a marciare attraverso le lande della loro stessa psiche, le sterminate campagne del loro io.
McCandless non è sopravvissuto al viaggio fisico e non sapremo mai se quello spirituale ha visto completamento, ma Sam? La sua impossibilità a morire lo vede in netto vantaggio, ma possiamo solo immaginare quanto questa sua invulnerabilità possa gravarne la psiche, aumentando il peso sul piatto della bilancia psicologica.
Forse diventerà un martire, ritrovandosi a dare la propria vita per il bene di un paese frammentato ma non per causa sua, forse sarà l’egoismo umano a sopraffarlo, come già si potrebbe vedere nella scelta finale di Joel in The Last of Us, forse la differenza la faremo noi… non resta che aspettare.
To stay put is to exist; to travel is to live.