Death Stranding: verso la recensione – H come…
Tutte le ispirazioni, reali e presunte, del titolo di Kojima Productions... con la lettera H
I giochi esistono da millenni e il nostro modo di giocare si è evoluto istante dopo istante.
In questo editoriale ci interroghiamo se Death Stranding, a pochi giorni dalla recensione e poi dall’uscita, vuole provare ad essere qualcosa di più di un videogioco, e lo facciamo indagando su un testo di cui vi abbiamo già parlato in precedenza: Homo Ludens.
H come Huizinga
Abbiamo già affrontato in precedenza il potenziale implicito che Kojima vede nel suo Death Stranding, ultimo ingrediente per il nostro necessario balzo evolutivo da Homo Sapiens ad Homo Ludens: ora ne consideriamo un ulteriore tassello, quello offerto dallo storico olandese Jonah Huizinga, vissuto a cavallo fra l’800 e il ‘900.
Egli si espresse fortemente a favore del “gioco”, considerandolo da un lato essenzialità costante dello stile dell’uomo, dall’altro eterno rinnovamento della sua creatività: per Huizinga il gioco permette(va) all’uomo di distogliersi dalla realtà per riorientare il proprio simbolico nord, morale ed emotivo.
la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco
È attraverso il gioco che, secondo Huizinga, ci sentiamo veri protagonisti degli eventi, finalmente gioiosi di “esser causa”; tramite esso siamo in grado di costruire
un mondo privato per riflettere e trascegliere, per istituire il rilevante
Kojima ci ha dato più e più volte modo di farci pensare che in realtà Death Stranding sia esattamente questo, un mezzo per un fine: Sam trasporta cargo da un lato all’altro dell’america nel tentativo di riconnettere l’umanità, ma forse sta trasportando anche noi, verso un futuro più coeso, più dedito all’empatia che allo scontro, un mondo che ha lasciato talmente tanto alle spalle il concetto del “distruggere” da non saper che fare se non costruire insieme.
Kojima e Huizinga sembrano così condividere la presupposizione che il gioco sia sempre in funzione di qualcosa, che serva a una precisa finalità biologica: l’uomo si è evoluto grazie alla scoperta e l’utilizzo di strumenti utili a questo scopo, e forse Death Stranding è la scala che ci serve a raggiungere il prossimo passo, non un’evoluzione prettamente corporea quanto mentale, sociale.
Death Stranding è sì gioco ma è IL gioco, quella porta che si schiude sulla prossima “stanza” della nostra evoluzione, come persone, come giocatori, come umani.
Se Huizinga vedeva il gioco, negli anni ‘30, come una sempre meno irrorata radice dell’enorme albero della cultura, ora Kojima forse vuole dirci che è il nostro legame l’uno con l’altro che va rinsecchendosi; le tematiche narrative di Death Stranding potrebbero spingerci a riconoscere questo e, magari, a far qualcosa a riguardo.
Il (video)gioco è libertà di essere altro, altrove, una extra-ordinarietà che si pone alternativa alla vita di tutti i giorni; a differenza della vita, il gioco può permettersi di essere soddisfacente in e per sé stesso, complici i limiti e le libertà che impone; un’attività autotelica che nasce quando premiamo quello “Start”, ma che non muore una volta appoggiato il controller.
Il gioco, forse proprio Death Stranding, riesce nell’unire le due verità antitetiche dell’immanente estetica personale e dell’esperienza collettiva tramandata: esperiamo il gioco da soli, certo, ma poi ne discutiamo con amici e compagni, rendendolo tradizione.
È un equilibrio sottile e un lascito importante, vedremo se il titolo di Kojima Productions, in questa o nelle prossime iterazioni, sarà in grado di arrivare a destinazione.