Death Stranding: verso la recensione – G come…
Tutte le ispirazioni, reali e presunte, del titolo di Kojima Productions... con la lettera G
Ormai non occorre nemmeno più che ve lo ricordiamo…
O sì?
La recensione di Death Stranding sta per arrivare ma non volevamo lasciarvi troppo a voi stessi, ecco quindi un nuovo editoriale sulle influenze conscie e inconsce dello strand game di Kojima Productions.
G come Gyo
Nel trailer di annuncio di Death Stranding, rilasciato quelli che sembrano millenni fa, uno degli aspetti più interessanti, enigmatici e onestamente inquietanti era il numero assurdo di animali marini spiaggiati su quei neri lidi, di sfondo a Sam: granchi gravidi e balene riempivano lo schermo in uno scenario che aveva dell’apocalittico ma che colpiva occhio e mente nel suo fin troppo evidente richiamo alle realtà ambientali semicatastrofiche che un giorno sì e un giorno no vediamo in un qualsiasi telegiornale.
La distorsione orrorifica del naturale ordine delle cose, soprattutto in un contesto fortemente influenzato dalla tecnologia, non può che richiamarci alla mente una delle opere dei mangaka più interessanti del panorama, “Gyo Ugomeku Bukimi” di Junji Ito.
Sì, il nome dovrebbe giù dirvi qualcosa: Junji Ito era infatti coinvolto nel progetto “Silent Hills” poi cancellato, e rimane un artista molto amato da Kojima.
In “Gyo” una coppia di ragazzi, Tadashi e Kaori, si ritrova a dover combattere contro orde di pesci non-morti provvisti di gambe meccaniche alimentate da un gas chiamato “odore di morte” (“death stench”), in grado di infettare anche l’essere umano.
“Gyo” è un racconto che, come Death Stranding sembra voler fare, unisce molti generi, universi di suggestioni disuniformi e reciprocamente distanti concretizzate in una sceneggiatura ibrida fra horror, sci-fi e temi sociali.
L’influenza di Junji Ito è più che palese e potete riconoscerla anche solo dalla semplice giustapposizione di immagini che costellano questo articolo; è difficile non immaginare Death Stranding come un perfetto sposalizio fra la creatività grottesca di Ito e l’ampiezza emotiva dello storytelling Kojimiano.
Se c’è una speranza, in questo nostro paragone fra Gyo e il titolo di Kojima, è quella che quest’ultimo sia maggiormente capace del primo di tenere elevata la tensione narrativa, giocando meno sul fattore orrore e più sul terrore dell’ignoto che già innalzava l’ansia dei primi Silent Hill: mostra una cosa inquietante e farai paura qualche secondo, ma spingi il giocatore a immaginare le ragioni dietro a qualcosa che non sa razionalmente spiegarsi e avrai contribuito a creare, a quattro mani, il suo incubo peggiore.
Se non si fosse ancora capito, anche psicologicamente parlando siamo in grado di essere i nostri più infernali antagonisti, tanto nel rapporto con noi stessi quanto in quello con gli altri.
Verrebbe quasi da dire… si vive insieme o si muore da soli.