Death Stranding fa pace con il cuore
Un pensiero personale e intimo per fare gli auguri a Death Stranding.
Lo ammetto. Sono ossessionato da Death Stranding. Sono ossessionato dalla sua capacità di catapultarmi in un ambiente caldo e mai ostile. Sono ossessionato dal bisogno fisiologico di solcare l’America di Sam Porter e rimanere continuamente esterrefatto dalla normale bellezza del mondo.
Forse sono ossessionato perché, per carattere, tendo ad abbracciare con più facilità i più deboli. Non che Hideo Kojima abbia bisogno di me o sia un debole, sia chiaro. Eppure, io che non trovo difetti in Death Stranding, ossessionato dal fascino che il titolo trasuda, dai colori opachi, dalle lunghe traversate senza vincoli e pressioni.
Lo so cosa state pensando, vi percepisco. Riesco a farlo perché ho imparato a conoscere le vere reazioni di chi si è sempre mascherato dietro la devozione per Kojima, i veri commenti di chi sbuffava dinanzi al “monotono andamento del gameplay” di Death Stranding, come se fosse la pecora nera in un recinto di capolavori.
Ma io no, non ho mai apertamente preso una posizione sul titolo e voglio farlo ora, quando tutto sembra essere passato in sordina, quando non contano più i dieci e risulta più semplice sentenziare positivamente su Death Stranding. Voglio chiarire cosa penso, vomitando pensieri che cuociono da quattro anni e che sono pronti per essere sfornati oggi che il titolo compie quattro anni.
Vedere un Mondo in un granello di sabbia, e un Cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito nel cavo della mano e l’Eternità in un’ora.
Così ci veniva presentato Death Stranding. In quei trailer lontani dai quali era impossibile riuscire ad individuare cosa sarebbe stato pubblicato, in seguito. Iniziava così, la genesi di quello che poi sarà il titolo più controverso del 2020 e non solo, di un amore a prima vista che fulminò le coscienze di tanti videogiocatori come me.
E tornano alla luce momenti e suoni indelebili nella mia mente. Sam che schianta la moto, quest’ultima che cade giù a picco rovinosamente, la bellezza divisiva di Fragile e la lunga, maestosa ed incantevole discesa, accompagnata dalla dolce melodia di “Don’t Be so Serious” in sottofondo, verso Central Knot City.
Il protagonista ignaro di ciò che gli spetta, privo di orientamento quando viene chiamato alle armi dalla Bridge; eppure, sempre sicuro di sé, raramente in difficoltà, è il nostro fedele alter ego durante tutta l’avventura, da dirigere all’interno di un mondo così ostile quanto affascinante
Che si tratti di portare un pezzo di un fucile, di distribuire aiuti ad un anziano riparatosi sopra una collina o violare un sistema di difesa dei muli, sono sempre stato vicino a Sam Porter, una spalla sulla quale appoggiarsi e riposare.
Un tempo ci fu un’esplosione
Già. Il Death Stranding. Quella esplosione che tutto ha distrutto. Quella catastrofe che ha spazzato via tutte le conoscenze umane, disgregando tutti i rapporti umani, incupendo gli animi e che ha aperto le porte alle creature dalle sembianze antropomorfe denominate “CA”.
Qui interviene Sam Porter, che più che essere un corriere appare come un connettore, un legante, un federatore delle comunità. Colui che ha il compito di riaccendere le speranze nei cuori dei (pochi) abitanti rimasti, in nome di un ideale superiore, quasi a rappresentare il messia sceso in terra per ripristinare la vita.
Nel cuore di Sam, nei suoi ricordi, ho trovato il modo di empatizzare con lui. Tra le righe dei suoi silenzi sono riuscito a comprendere quale fosse la ratio di tutto: l’amore. L’amore per il suo lavoro, in primis. Ma anche l’amore che ricopre il rancore nei confronti della sua famiglia. L’amore per quella creatura che costantemente lo accompagna e tormenta.
Un tempo ci fu un’esplosione… Uno scoppio che diede origine al tempo e allo spazio. Un tempo ci fu un’esplosione… Uno scoppio che portò un pianeta a ruotare in quello spazio. Un tempo ci fu un’esplosione… Uno scoppio che generò la vita così come la conosciamo. E poi arrivò un’altra esplosione…
Grazie Kojima, non dimenticherò mai Death Stranding
Per tutta la durata dell’avventura, le storie che il gioco propone si rivelano sorprendentemente affascinanti. Basti pensare alla disperazione di Heartman, alla rabbia di Cliff, al senso di colpa di Fragile, alla tragedia di Mama, al mistero che si trascina il nostro più fedele alleato in missione, BB-28.
In tutto ciò si cela la gemma preziosa che è Death Stranding (a proposito, trovate qui la nostra nostra recensione): un canovaccio ricco di sorprese e tragedie, di lunghi silenzi e momenti di gioia, di passeggiate di salute accompagnate da colonne sonore d’autore (tra tutte, mi piace ricordare “Asylums for the feeling” di Silent Poets).
A Kojima deve essere riconosciuto il merito di aver costruito un universo di gioco fuori da ogni schema, contraddistinto da una morfologia tutta sua, da un peculiare stile illustrativo. Un sistema di condivisione delle esperienze atipico e stimolante. Insomma, una perla consegnata a noi alla stregua di un testamento intimo. Per tutto ciò, ricorderò Death Stranding per tutta la vita con segreto piacere. Tanti auguri Death Stranding.