Death Stranding e la necessità di riconnettersi
Siamo una parte di tutto ciò che abbiamo trovato per strada.
Fino a qualche settimana fa l’oscurità attorno a Death Stranding si stava facendo più impenetrabile della nebbia di Silent Hill, ma anche la notte più buia è seguita dalla luce, e in questo metaforico purgatorio è Kojima, come un rispettabile e rispettoso Virgilio, a illuminarci il percorso, raccontandocene anfratti, pericoli e protagonisti.
Il parallelismo con l’epopea Dantesca rimane di interessante considerazione anche nell’invertirne la verticalità, dove la luce accecante dell’ignoranza attorno al genoma di Death Stranding è soppiantata e affievolita, dopo la visione di ben 49 minuti di gameplay, dalla demolita disillusione sulla realtà della sua natura, che per quanto visionaria e di eccellente fattura (stiamo pur sempre parlando di Kojima, d’altronde), non può che venirne impoverita.
O almeno questo è l’onesto timore.
È Kojima stesso a confessare, nel tweet dell’11 Settembre, che la sua parte “creativa” ci vorrebbe ignari dei particolari di Death Stranding, per permetterci di scoprirne il volto con i nostri ritmi, protagonisti delle sue genuine emozioni come il neonato che Sam porta “in grembo” e come lui alla mercé di chi esiste per proteggerci.
Death Stranding è sicuramente un gioco complesso in un mondo che, giorno dopo giorno, sembra volere cose semplici, e Kojima non può che accusare il colpo del titanico hype che vi si è creato attorno; possiamo solo immaginare l’amaro in bocca nel sentirsi costretto a rivelare più di quanto vorrebbe, da game designer e in parte anche da giocatore lui stesso, con tutto che assume i contorni di un’assurda distorta forzatura attorno a un titolo fortemente improntato sulle connessioni e sul loro risanamento.
Il gameplay visto in questo primo giorno è estrapolato da una sezione posta più o meno a un terzo del gioco, opportunamente privata degli spoiler che inevitabilmente UI e alcuni elementi di gioco potrebbero svelare. La prima sezione del gameplay vede Sam svegliarsi e ricevere un breve briefing dal Die-Hard Man, per poi scendere nel centro distributivo interrato e iniziare a organizzare il suo prossimo viaggio, in questo caso da Capital Knot City a Port Knot: qui Kojima ci mostra la parte dedicata alla produzione di materiali, tramite una sorta di stampante 3D chiamata “stampante chirale” (con cui Kojima crea della corda, una scala e un paio di scarpe); successivamente osserviamo invece la preparazione vera e propria del carico, decidendo quindi quanto mettere sulle spalle del povero Sam fra medicinali, biomateriale, armi e granate.
Sono molti i fattori integrati in questa sezione: non solo dovremo evitare di caricare troppo le spalle di Sam, ma dovremo anche stare attenti a come il carico è distribuito, bilanciandolo al meglio; in questo senso, è molto utile la possibilità di portare qualche specifico elemento (la scala e le granate, finora) anche a mano, ai lati delle spalle o all’interno della saccoccia. Se da un lato fa sorridere l’inserimento di così tanti particolari, non è una sorpresa che in Death Stranding ci si debba anche preoccupare di far stare letteralmente in piedi Sam, con i tasti L e R del controller, poiché il peso del nostro cargo ne determina sia l’equilibrio che la stamina.
Una volta fuori, possiamo osservare la piena potenza dell’open world creato da Kojima: sì, il gioco crea una linea retta fra partenza e destinazione, ma grazie alla dettagliata mappa in 3D potremo decidere ogni step del nostro viaggio, optando magari per l’attraversamento di un fiume piuttosto che per la scalata di una piccola altura. L’utilizzo del sensore topografico è molto immediato, e ci permette di analizzare le condizioni del terreno e la sua traversabilità, nuovamente spingendoci a considerare ognuno dei fattori che potrebbero compromettere la nostra salute o l’integrità di ciò che stiamo trasportando.
Come parte integrante di un mondo di natura, nemmeno la forza di un fiume è da prendere sottogamba: cedendo alla sua violenza potremo ritrovarci a danneggiare o perdere parte del nostro cargo, senza dimenticare quanto BB, il bambino che portiamo in grembo, odi i fiumi, astio che ci verrà riconfermato dal suo visibile (e udibile) stato di stress ogni qualvolta ci troveremo ad attraversare un corso d’acqua; chissà se è una paura che verrà motivata in-game o se sarà da prendere come un tassello prestabilito, inamovibile it is what it is nella spessa trama emotivo-comportamentale del bimbo.
Lungo la strada ci ritroviamo a raccogliere un pacco disperso da un “prepper” musicista che abita nelle vicinanze, evento che ci mette essenzialmente sulla strada per una consegna opzionale e che mostra i confini, letterali e a livello di meccaniche, del Network Chirale al quale Sam è portato a riconnettere l’America; oltre il confine di questa infrastruttura digitale non ci è possibile utilizzare molte delle funzionalità legate proprio al network, ed è consegnando il pacco nelle migliori delle condizioni che guadagneremo la fiducia del destinatario (espressa apparentemente in like) e potremo riconnetterlo al resto dell’UCA, le United Cities of America.
È qui la vera grande sorpresa di Death Stranding, una feature che osanna la meta-narrativa innalzandola a nuove vette: quando riconnetteremo qualcuno al Network Chirale, ci ritroveremo noi stessi connessi al resto del mondo, anello di una catena di Sam e di giocatori sparsi intorno al globo; apparentemente potremo condividere le nostre risorse con gli altri, ricevendo da loro like nel momento in cui le utilizzeranno o semplicemente quando vorranno ringraziarci con un virtuale pollice in sù.
È un forte senso di comunità che non fa che accentuare la realtà di quello “spiaggiamento” in cui l’umanità riversa in Death Stranding, un’arenile di statica disconnessione fra esseri viventi che non aspetta altro che un campione in grado di riallacciare l’identità di tutti in una molteplicità più forte, migliore, più umana, una reiterazione dell’e pluribus unum che proprio gli Stati Uniti promuovevano qualche secolo fa a destinazione morale per la quale vivere, combattere e morire.
Non c’è storia senza antagonisti, e il gameplay ce ne fa conoscere subito uno, i “Mule”, ostili la cui unica funzione sembra quella di prendere il cargo dai vari Sam che vagano per le lande, tanto che non tenteranno mai di ucciderci ma solo di fermarci e derubarci, esattamente come noi potremo difenderci da loro solo con una specie di lanciabolas in grado di immobilizzarli legandoli. La loro base è ovviamente piena zeppa di materiali, come un esoscheletro capace di aumentare la nostra velocità a piedi, ed è in fase di combattimento che scopriamo che i vari pacchetti possono anche essere usati come arma, compromettendone però l’integrità; è l’ennesimo tassello del complicato equilibrio risk/reward su cui Death Stranding sembra poggiare, una meccanica che, se ben applicata, non può che far presagire la potenza videoludica della marcata unicità personale che ogni nostro viaggio e consegna potranno rappresentare.
Sotto le gocce di una pioggia che ci è tutto tranne che amica, ci spostiamo verso le rovine di un villaggio, pronti per un faccia a faccia con i BT, creature invisibili ai nostri occhi ma individuabili grazie a BB e alla sua connessione con sua madre, che si trova “dall’altra parte”. Considerando che i cosiddetti “Gazers” hanno la nostra stessa cecità selettiva e saranno visibili solo quando saremo immobili, dovremo stare attenti a non attirare la loro attenzione con il suono, un po’ come con i Clicker di The Last of Us; combinando la spara-bolas di prima con il sangue di Sam potremo ancorare i Gazers al loro posto, ma se dovessimo essere individuati e intrappolati nel catrame resteremo alla mercé degli Hunters; se non saremo in grado di respingerli, ci trascineranno attraverso il catrame al cospetto di una pericolosa bestia, il Catcher, una creatura fatta di antimateria in grado di divorarci e trasformare in un cratere l’intera città.
Il combattimento contro la bestia, nel gameplay che abbiamo osservato, ha richiesto molte schivate e molte granate, mettendo a dura prova Sam tanto da costringerlo a chiedere l’aiuto di altri giocatori, che sono comparsi per rifornirlo e permettergli di sconfiggere il Catcher. Dopo un breve stacco, ritroviamo Sam in un contesto più montano e, complice la temperatura non propriamente amichevole, in serio stress termico; prontamente, ecco una fonte termale, di cui esisteranno diverse varianti, ognuna con un diverso effetto benefico, ognuna segnalabile con un apposito cartello da uno qualunque dei giocatori che la troveranno sul proprio cammino.
Saltato in sella a una moto trovata lì accanto, Sam può nuovamente utilizzare il pool comune di materiali e strutture che la connessione al Network Chirale permette, in questo caso un ponte: ancora più frutto dell’allacciamento collaborativo fra più giocatori, ci facilita l’attraversamento di un corso d’acqua e ci concede di vedere in lontananza un’altra struttura, questa però in corso di costruzione, e alla quale potremo contribuire lasciandovi materiali o quant’altro. Il potere di plasmare tutti insieme questo mondo è qui reiterato, sia nel ponte e nella struttura, che nel conseguente percorso in moto: se un utente può mettere un cartello indicandoci una strada non percorribile, un altro può invece mettere un piccolo boost di velocità; sono tutte particelle d’esperienze di gioco che spingono nuovamente verso una meta-narrativa fatta di infiniti descrittivi e parallelismi, forse della vita stessa, che come Death Stranding deve essere vista come un viaggio che affrontiamo da soli, ma durante il quale non siamo mai veramente soli.
L’alternativa è ritrovarsi spiaggiati sulle rive di un’esperienza che ha tutto il diritto di renderci felici, ma solo dopo averci resi forti.
Se servono i molti passi di molti Sam a trasformare un sentiero in una vera e propria strada, sono necessarie tutte le nostre impronte per plasmare percorso e identità di Death Stranding, un titolo che assume ogni istante di più la personam di figlio artistico di Kojima, creatura il cui mondo e le cui esperienze siamo e saremo noi, siano esse carezze o cicatrici. L’arrivo a Port Knot City è emotivamente vibrante, effetto di una simbiosi fra canzone e inquadrature che non può che evocare un déjà-vu fisiologico per ogni giocatore che si rispetti, quello dell’arrivo in Messico di John Marston in Red Dead Redemption.
Con l’arrivo al deposito della città si conclude questo primo esteso sguardo al gameplay di Death Stranding, nuovo enfant di Kojima dal potenziale umano e videoludico davvero fuori scala.
Ora siamo curiosi di sapere cosa ne pensate voi, però, quindi fatevi sentire nei commenti e sui social, noi non aspettiamo altro che questo, perchè qualche volta allungarsi a stringere una mano significa l’inizio del nostro viaggio, altre volte è ciò che permette a un altro di iniziare il suo.