Back in Time – Valiant Hearts: The Great War
L'altra faccia di Ubisoft.
Accanto a terribili (dai, non offendetevi, si fa per dire -NdR) franchise stagionali, nella scorsa generazione Ubisoft aveva tentato di preservare un’anima più genuina e sperimentale, che non costituiva certo la principale fonte di guadagno della software house, ma che le consentiva di essere apprezzata anche da giocatori con gusti più sofisticati della media. In quegli anni abbiamo avuto modo di godere di due incredibili Rayman e recentemente abbiamo decantato le lodi di Child of Light.
Valiant Hearts: The Great War – uscito esattamente otto anni fa, nell’anno del centenario della Prima Guerra Mondiale (28 luglio 2014) – si pone nello stesso solco, e condivide con i giochi di cui sopra il motore grafico, lo strabiliante UbiArt Framework. Per quanto attiene tutto il resto, però, vedremo che l’ultima opera dello studio di Montpellier si discosta notevolmente dai titoli di cui sopra, affrontando la gravosa tematica della guerra.
Se non disdegnate gli FPS, vi sarete imbattuti più di qualche volta in giochi a sfondo bellico. Valiant Hearts non rientra né in questa categoria né in quella degli FPS: qui la guerra non è un semplice contorno, ma il vero e indiscusso protagonista.
La trama ci racconta le disavventure di quattro personaggi (cinque, contando anche il valoroso cane dell’unità cinofila che spesso ci aiuterà), variamente collegati fra loro dalle contingenze o da legami affettivi. Cinque delle innumerevoli vite sconvolte – quando non addirittura stroncate – dalla Prima Guerra Mondiale. I diversi capitoli, divisi a loro volta in sezioni, ci raccontano un’unica grande storia, servendosi delle prospettive dei protagonisti, destinati a incrociare spesso le loro strade ed altrettante volte a separarsi. Ciascuno di loro ha i suoi motivi per prendere parte al grande conflitto (non ultimo la costrizione), ma il desiderio di tutti è poter riabbracciare i propri cari.
La narrazione si serve principalmente di una voce esterna, che riassume brevemente le vicende belliche più importanti e annuncia i cambi di fronte e di personaggio, mentre le sezioni giocate non vengono spezzate da dialoghi, anche nei momenti salienti. In queste fasi è possibile apprezzare anche elementi umoristici di comic relief e accedere a numerosissimi dati storici interessanti: essi non sono legati solo agli eventi bellici, ma anche alle condizioni di vita e agli oggetti di uso comune fra i soldati; microstoria, potremmo dire. Anche in questo frangente gli sviluppatori hanno voluto esplorare il lato umano e quotidiano della guerra, e non solo le battaglie, le armi e le strategie, che invece sono al centro di numerosi giochi di tutt’altro genere.
Valiant Hearts non ha bisogno di uno stile realistico per dipingere l’orrore della guerra, anzi, sfoggia fieramente l’UbiArt Framework adattandolo alle sue esigenze: se i due Rayman erano esplosioni di colore e vitalità e Child of Light era una fiaba trasognata, l’opera di Ubisoft Montpellier è un fumetto caricaturale, espressivo e vibrante nei suoi colori (la palette cromatica ha molto di più da offrire rispetto ai soliti grigi smorti che caratterizzano gli shooter a sfondo bellico). Anche i fondali, spesso composti da numerosi livelli, sono curatissimi e dinamici, con soldati in movimento, smitragliate ed esplosioni. La regia non indugia mai sulla crudezza della violenza fisica (come invece fanno altri giochi dallo stile cartoon), perché non è questa la dimensione del conflitto mondiale che il titolo si propone di esplorare. Tutto questo ben di Dio – che comunque a livello tecnico non è roba da capogiro, beninteso – gira a 60fps con una risoluzione di 1080p (la versione da noi testata è quella per Xbox One). Non è certo disdicevole affermare che uno dei maggiori pregi di Valiant Hearts sia proprio la grafica: non parliamo di mera potenza di calcolo, ma di arte e di fine design.
Il sonoro è all’altezza della situazione, grazie all’ottimo doppiaggio (anche in italiano) e alle musiche, tra cui possiamo distinguere sia pezzi originali sia brani famosi scelti per accompagnare alcune scene particolari, come le sezioni di guida a tempo di musica, durante le quali possiamo ascoltare, ad esempio, Il Volo del calabrone. Le composizioni originali sono anch’esse di qualità, proponendo interessanti temi di pianoforte, marce militari e altro ancora.
Se fino ad ora ci siamo profusi in lodi sperticate, purtroppo il gameplay ci farà tornare con i piedi per terra: Valiant Hearts non è ingiocabile, tutt’altro, ma non è nemmeno in grado di toccare vette di eccellenza. Ubisoft Montpellier ha costruito un’avventura bidimensionale infarcita di semplici puzzle e arricchita da fasi action in senso lato e da qualche QTE. Gli enigmi il più delle volte sono strutturati come in un punta-e-clicca (però il gioco è pensato per giocare con il pad), solo che tutto è molto semplice e spesso abbastanza ovvio. Esistono anche due sistemi per aiutare il giocatore bloccato: uno consiste nell’evidenziare gli elementi interattivi, e l’altro in un sistema di indizi che vengono sbloccati con il passare dei minuti; è possibile non avvalersi di queste agevolazioni scegliendo (in ogni momento) la Modalità Veterano, ma anche in questo caso il grado di sfida non sarà alto. Le possibilità di interazione sono abbastanza scarse, tanto che non è contemplato nemmeno un inventario.
Quelle che abbiamo chiamato fasi action consistono essenzialmente in corse ad ostacoli (in sostanza ci si sposta da un punto A ad un punto B evitano le bombe che cadono dal cielo), brevi sezioni stealth e sporadiche missioni di guida, in cui in realtà non si fa altro che spostare il veicolo a destra e a sinistra a tempo di musica. I QTE sono legati ad Anna (uno dei personaggi giocabili, è un medico), la quale dovrà curare numerose persone completando alcune brevi sessioni che ricordano i rhythm game. Nulla per cui strapparsi i capelli, va da sé.
Dopo il primo capitolo si ha già una panoramica pressoché totale su ciò che il gameplay ha da offrire. Ciò non è un dramma, un po’ perché per quanto semplicistico, si lascia giocare abbastanza piacevolmente, e un po’ perché l’avventura non è lunghissima: molto dipende dalla scaltrezza di chi regge il pad fra le mani, però la maggior parte delle persone che si è cimentata in Valiant Hearts, l’ha portato a termine in sei/otto ore. Non sono tantissime, ma non sono nemmeno così poche per un gioco scaricabile per € 14,99.
Per allungare la permanenza del titolo nell’Hard Disk potete darvi alla raccolta dei collectible (oltre 120) disseminati nei vari livelli, che possono essere rigiocati singolarmente sezione per sezione. In questo modo probabilmente arriverete anche a sbloccare tutti gli Obiettivi. Va detto, comunque, che il replay value non è elevato: conoscendo già enigmi e trama, gli stimoli vengono un po’ a mancare.
Valiant Hearts: The Great War non è stata una delle migliori esperienze ludiche della mia lunga carriera videoludica, ma non per questo non mi sento di promuoverlo a pieni voti. Un’avventura ricca di arte, di storia e di emozioni, con un finale da ricordare. Il problema, condiviso con altri videogiochi con spiccate propensioni artistiche e culturali, risiede nel fatto che il gameplay semplicemente non è all’altezza delle altre componenti. Il discorso, dunque, è riassumibile nei seguenti termini: chi voglia un gioco genuinamente divertente può rivolgersi altrove; chiunque sia alla ricerca di un’esperienza pregnante farebbe bene, invece, a considerare Valiant Hearts.