Back in Time – Rise of the Tomb Raider

Una Lara glaciale.

La settimana scorsa abbiamo rispolverato Tomb Raider, quello del 2013. l’occasione per parlare di Rise of the Tomb Raider, capitolo centrale della trilogia, uscito nel 2015 su Xbox One (versione testata) e Xbox 360 e negli anni successivi su numerose altre piattaforme. La prossima settimana, invece, non tratteremo Shadow of the Tomb Raider, uscito troppo recentemente per rientrare in questa rubrica; potete però leggere la recensione di Matteo Scannavini, autore della scorsa puntata di Back in Time.

La seconda avventura del terzo ciclo di Lara Croft è ambientata prevalentemente in Siberia, dove la giovane archeologa cerca il segreto dell’immortalità sulle orme delle ricerche del padre. Il cambio radicale di location è stata una mossa saggia da parte degli sviluppatori, che sono riusciti non solo a conferire una “patina” di novità a un prodotto ludicamente piuttosto vicino al prequel, ma anche a raggiungere un altissimo livello di spettacolarità, che nel panorama attuale solo Uncharted 4 potrebbe eguagliare. Chi teme un’eccessiva monotonia non deve preoccuparsi, visto che, grazie ad alcuni espedienti narrativi, il gioco riesce a proporre una discreta varietà di ambienti, tra cime innevate, boscaglia, tombe nascoste, rovine desertiche e un certo numero di interni; è chiaro che neve e ghiaccio sono gli elementi prevalenti, ma ciò non significa calpestare neve per quindici o venti ore. E anche se così fosse stato, si sarebbe comunque trattato di una scelta difendibile, visto che si tratta di un’ambientazione non popolarissima nell’ambito del genere.

La resa grafica di Rise of the Tomb Raider è davvero sbalorditiva: le pareti di ghiaccio sono così lucide e levigate che vien voglia di toccarle per saggiarne la temperatura; Lara sprofonda fino alla vita negli strati di neve fresca durante le sue peregrinazioni; le sequenze scriptate con frane e smottamenti sono degne di un film d’azione. Ma a colpire non è solo la cura riposta in particolari elementi o sezioni, perché Rise of the Tomb Raider se la cava egregiamente anche con i modelli poligonali e le espressioni facciali, nonché con l’illuminazione. Il tutto alla risoluzione di 1080p, che cala a 1440×1080 solo nelle cutscene, e a 30 FPS, che in un gioco di questo tipo costituiscono uno standard soddisfacente, tanto che pure Uncharted 4 “si accontenterà” dei 30 FPS in single player. E il gioco pesa “solo” 20,47 GB. L’unico vero compromesso pare essere costituito dai tempi di caricamento, piuttosto lunghi nei passaggi da campo a campo. Non sono frequentissimi, ma comunque risultano sgradevoli.

rise of the tomb raider

Mentre Tomb Raider (del 2013) ha assolto al non facile compito di dare una nuova identità – non solo ludica – al fortunato franchise, il suo sequel non necessita di essere dirompente, e quindi non presenta grosse novità di rilievo, al di là del cambio di latitudine. L’obiettivo di Crystal Dynamics era piuttosto quello di non deludere gli oltre otto milioni e mezzo di acquirenti di Tomb Raider, la maggior parte dei quali si è appassionata alle vicende della nuova e sempre più umana Lara, lasciandosi intrattenere da un gameplay ricco e complessivamente amichevole, anche se non propriamente “libero”. A parere di chi scrive, l’obiettivo è stato centrato.

Lara si è fatta più matura e spietata, ma ciò non toglie che debba ricominciare il suo percorso di crescita daccapo, come in quasi tutte le serie videoludiche. Anche questa volta, dunque, skillset e arsenale dovranno essere gradualmente potenziati presso gli accampamenti tramite la spendita di punti abilità e il reperimento di parti (ad esempio nei forzieri) e materiali. Il sistema è quello di Tomb Raider, e anche skill e armi/attrezzature sono in parte sovrapponibili. Anche pad alla mano non si registrano grandi novità: Rise of the Tomb Raider è, proprio come il predecessore, un riuscito mix di esplorazione, combattimenti, puzzle e QTE/sezioni scriptate. Forse è possibile ravvisare una qualche diversità nelle dosaggio delle componenti, che mi è parso più generoso nei confronti dell’esplorazione. Ciò non si traduce in dedali impossibili o enigmi da incubo, ma nella ricerca di reliquie e documenti, che diventano pure visibili sulla mappa, una volta aggiornata la cartografia.

rise of the tomb raider

La sfida rimane alla portata di tutti; certo, ci sono quattro livelli di difficoltà, scalabili in ogni momento, ma essi impattano solo sui combattimenti. Chi desideri lambiccarsi il cervello per qualche istante può invece disattivare (o decidere di non utilizzare) l’Istinto di Sopravvivenza, quella modalità di visione, introdotta da Tomb Raider, che evidenzia obiettivi ed elementi interattivi. Inoltre, bisogna ricordare che la maggior parte degli enigmi non è obbligatoria, trovandosi nelle tombe opzionali.

La scelta di strutturare in questo modo il gameplay ha il vantaggio di offrire ai giocatori più “pazienti” qualcosa in più, mantenendo l’opera fruibile anche ai più casual, ma in quest’ottica si sarebbe potuto fare qualcosa di più proprio nella “personalizzazione” degli approcci. Mi spiego: nonostante la presenza di molti elementi opzionali e di aree ampie, Crystal Dynamics conduce sempre per mano il giocatore, senza dargli libertà nella scelta dei mezzi per superare gli ostacoli. Gli enigmi hanno una sola soluzione, basata su interazioni classiche e a volte ingenue. Quante next-gen ci vorranno per raggiungere il prossimo livello di interattività? Quello in cui, se carichi dell’esplosivo su una zattera per far saltare una porta, poi esplode pure la zattera?

rise of the tomb raider


Pad alla mano, Rise of the Tomb Raider risulta probabilmente superiore al (comunque ottimo) predecessore, però l’assenza di novità di rilievo lo penalizza un po’, ma giusto un pochettino: si tratta pur sempre di uno dei migliori giochi del 2015!

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