Floppy Disk – La prima generazione di console
Prima che al cinema, la guerra dei cloni arrivò sugli scaffali dei negozi di elettronica, dando il via alla prima generazione di console.
Sin dalla sua nascita, il mercato delle console è sempre stato suddiviso nelle cosiddette “generazioni”, serie di macchine uscite all’incirca nello stesso periodo che si contendono il dominio di mercato a suon di esclusive, marketing estremo e a volte veri e propri colpi bassi.
Il periodo di durata di una generazione si attesta intorno ai sette anni di media ed è determinato dall’esigenza del pubblico e degli sviluppatori di avere a disposizione hardware più performante, esigenza che spinge quindi le case produttrici a creare nuove console dando così vita alla generazione successiva.
Ebbene, l’uscita di Magnavox Odyssey nel 1972 diede inconsapevolmente il via a quella che successivamente sarà conosciuta come la prima generazione di console, i cui contendenti erano caratterizzati da un hardware completamente mancante di microprocessori e linee di codice: ogni aspetto dei giochi era infatti implementato direttamente nei circuiti interni delle console attraverso un sistema di porte logiche gestite da diodi e transistor.
Nonostante il limitatissimo numero di giochi e l’hardware sperimentale, ciò che questa prima ondata di macchine rappresentò fu una vera rivoluzione a livello socio economico: per la prima volta nella storia, infatti, i videogiochi uscivano dal contesto universitario, ad appannaggio di pochi nerd e costituito da costosi main frame, per approdare nei negozi e nei salotti delle famiglie, entrando quindi nella quotidianità delle persone e nell’economia reale. Per la prima volta la gente spendeva soldi per possedere un videogioco, aprendo a tutti gli effetti una nuova fetta del mercato dell’intrattenimento che, con gli anni a venire avrebbe acquistato una sempre maggiore rilevanza.
La cosiddetta console war che ne seguì non fu solo a livello di vendite per il predominio di mercato, fu anche uno scontro di personalità fra i creatori delle due console più rappresentative: Ralph Baer e Nolan Bushnell. I grandi inventori, rispettivamente delle console e della game industry, non avrebbero potuto essere più diversi fra loro.
Come abbiamo già visto in precedenza, Baer era un meticoloso ingegnere capo della Sanders Associates. Il suo taccuino era il suo fidato compagno ovunque andasse e non perdeva occasione per appuntarvi con precisione idee, pensieri e avvenimenti, ovviamente dopo aver scritto la data sulla pagina. Le sue intuizioni in materia videoludica, oltre a ogni fase dell’ingegnerizzazione di Brown Box, furono tutte appuntate e i relativi brevetti intestati alla Sanders. I vertici aziendali, d’altra parte, lo lasciarono quasi solo a sviluppare la console, considerando il suo lavoro di nessuna importanza a confronto dei progetti per Pentagono e NASA che sviluppavano.
Nolan Bushnell era invece di tutt’altra pasta. Quando era impiegato alla Ampex andava vestito di tutto punto come da policy aziendale, salvo andare a San Francisco nei weekend vestito da hippie. Per non cedere brevetti e profitti ad alcuno, fondò Atari, un’azienda in cui diventerà prassi girare a petto nudo, fumare spinelli e lavorare liberamente in qualsiasi orario. Con buona pace del taccuino di Baer, Bushnell e il suo socio Dabney spesso raccontano versioni differenti degli stessi aneddoti.
Insomma, Baer era l’impiegato modello e Bushnell la rock star. Personalità opposte pronte a sfidarsi, con Odyssey e PONG, a suon di tennis digitale nella prima generazione di console.
Odyssey venne commercializzata al prezzo di 99 dollari con una serie di 12 cartucce tutte incluse nella scatola che permettevano di giocare a 28 giochi, di cui solo la metà raggiunse l’Europa. L’accordo stretto con Magnavox, produttrice di televisori inglobati in mobili da salotto, era certamente l’opzione più sensata non esistendo ancora produttori di videogiochi. Magnavox avrebbe venduto più televisori e Odyssey sarebbe stata proposta come optional. L’idea sulla carta era vincente, peccato però che la campagna marketing che avrebbe dovuto far conoscere la macchina al mondo, a causa di un grossolano errore, indusse a credere che Odyssey funzionasse solo su televisori Magnavox, cosa assolutamente non vera. Essendo l’inizio degli anni ‘70, un televisore era una spesa parecchio rilevante per una famiglia e quindi milioni di potenziali clienti in possesso di apparecchi di altre marche, non intendendo cambiare televisore per giocare, semplicemente non comprarono Odyssey.
Se quindi Magnavox non riuscì a convincere il pubblico, riuscì però a ispirare Nolan Bushnell, che fece creare ad Allan Alcorn, secondo dipendente della neonata Atari, PONG prima in versione cabinata, poi in versione home console.
Le origini del progetto PONG sono proprio uno dei casi in cui le versioni di Bushenll e Dabney non coincidono: il primo disse di essersi ispirato a un simulatore di tennis che aveva provato su un computer dell’università; il secondo, invece, dichiarò che l’idea era nata proprio da Odyssey e dall’aver trovato il Tennis Table di Baer un progetto contemporaneamente rivoluzionario e noioso. Il dubbio sarebbe rimasto in eterno se non fosse che, all’evento di presentazione, Bushnell ebbe la cattiva idea di firmare il registro delle presenze, smentendo a tutti gli effetti la sua versione e portandolo negli anni successivi a perdere una causa per violazione di brevetto in favore di Sanders.
Nonostante tutto, PONG risultò un prodotto estremamente divertente, forte delle migliorie apportate da Alcorn in fase di sviluppo, che resero il gioco un vero fenomeno di popolarità, nonché il primo successo commerciale nel mercato videoludico. Le sue vendite arrivarono a cifre mai raggiunte prima ed ebbero anche l’effetto collaterale di trascinare di riflesso le vendite di Odyssey, ormai rimaste irrimediabilmente indietro.
Ma dove c’è una preda da spolpare, ecco arrivare gli sciacalli. L’apertura di un nuovo mercato, insieme al successo travolgente di PONG, porterà infatti decine di produttori di elettronica e non solo a copiare il progetto e a commercializzarlo, sia in versione cabinato, sia home console, fenomeno che aumentò col passare degli anni, quando le logiche e i circuiti di PONG vennero miniaturizzati e integrati all’interno di chip. Dove però spuntava un nuovo clone, ecco arrivare gli avvocati di Sanders che vinsero ogni singola causa contro tutte quelle aziende che non accettarono il patteggiamento. Visto il proliferare dei vari dispositivi concorrenti, farne una lista è pressoché impossibile: alcune fonti ne riportano addirittura diverse centinaia.
Le più importati furono Telstar di Coleco, azienda di cui sentiremo parlare anche nelle prossime generazioni, l’italianissima Ping-O-Tronic prodotta da Zanussi e Sèleco, e Color TV Game, di un’azienda che da produttrice storica di carte da gioco in crisi stava cercando sbocchi in nuovi settori per rinnovarsi e rimanere a galla: una certa Nintendo. Nintendo fu anche l’unica azienda a citare in giudizio Sanders cercando di invalidare il suo brevetto sui giochi di tennis, sostenendo che loro avessero copiato Tennis for Two del 1958. Il verdetto fu che Tennis for Two, essendo visualizzato su un oscilloscopio, non utilizzava un segnale video e non era quindi definibile come videogioco. Risultato: ennesima vittoria per Sanders e Nintendo dovette continuare a pagarle le royalty.
Nel 1975 Magnavox venne acquisita da Philips e Odyssey fu soggetta a numerosi restyle e miglioramenti che tuttavia non ne arrestarono l’insuccesso commerciale. Nel 1978 ne venne definitivamente bloccata la produzione dopo 350 mila unità vendute: un risultato che oggi giorno sarebbe ridicolo. Le vendite di PONG invece furono inarrestabili tanto da entrare nella cultura popolare ed essere tuttora ricordato come il primo successo in assoluto nel mondo dei videogiochi. L’ascesa di Atari e del suo carismatico fondatore Nolan Bushnell era appena iniziata.
I contenuti di questo editoriale sono recuperabili anche in forma audio sul podcast Floppy Disk: