Life is Strange: True Colors – Recensione

Recensito su PlayStation 5

Life is Strange: True Colors è l’evoluzione, sotto moltissimi aspetti, di tutto quello che sono stati e hanno rappresentato i titoli prima, un notevole innalzamento dell’asticella per il franchise di Life is Strange, per Deck Nine e onestamente per il medium videogioco; lo chiariamo fin da subito così da farvi correre a comprarlo, se ancora foste stati in dubbio. Ora che abbiamo appoggiato le carte a faccia in su sul tavolo, vediamo in cosa questa nuova iterazione della saga ci dimostra la maturità che pian piano sta raggiungendo. Sia chiaro fin da ora; la formula rimane pressoché quella dei precedenti titoli della saga, quindi ci concentreremo su quello che rende Life is Strange: True Colors diverso (e, nella maggior parte dei casi, migliore) rispetto a quanto giocato finora.

Insomma, appoggiate lo zaino e prendetevi una bibita fresca: benvenuti a questa recensione.

Life is Strange: True Colors

A normal girl in a normal town

Alex vuole solo essere una ragazza normale in una città normale. Perché non può esserlo? Beh, uno dei fattori è lo status quo del franchise, quello al quale anche Life is Strange: True Colors si adatta, ossia la presenza, in qualche forma o contesto, di un superpotere, in questo caso quello di Alex.

Life is Strange: True Colors

Dimenticate però la telecinesi di Daniel Diaz o la manipolazione del tempo di Max Caufield: Alex ha il potere dell’empatia, elevata però a sé stessa; ogni forte emozione provata da qualcuno vicino a lei non solo viene da lei percepita, ma rende la povera ragazza cassa di risonanza di quel sentimento, portandola a provarla lei stessa, ma violentemente amplificata.

Sicuramente dove la troviamo all’inizio della sua storia, una sorta di centro per l’affidamento familiare, non è il posto migliore nel quale trovarsi con un superpotere così, ed è in particolare questa ricerca di un senso di appartenenza che la spinge a “cercare di meglio”. Una destinazione già ce l’ha, meta che diventa doppia quando scopriamo che la cittadina di Haven Springs, verso la quale decide di partire Alex, è anche la nuova tranquilla e remota dimora del fratello Gabe, separato da lei poco meno di 10 anni prima in seguito alla morte della madre e dell’abbandono del padre.

Life is Strange: True Colors

Fin da subito Life is Strange: True Colors ci consegna un Alex a doppia valenza: la “solita” lavagna bianca che ci permette di empatizzare con lei e con ciò che le capita da un lato, dall’altro una personalità ben definita ma che lei stessa sembra abituata a sopprimere. In questo contesto è interessante che Alex interpreti il suo potere come una maledizione, e che sia la sua apparente impossibilità a funzionare normalmente in un contesto sociale a spingerla a cercare pace nella reclusione e nell’unica famiglia che le è rimasta.

And I’ll bury my future behind

L’arrivo a Haven Springs sembra il coronamento di un sogno, un paradiso che, anche solo dal punto di vista estetico, è riuscito a toccare i tasti emotivi di chi scrive in modo immediato, quasi istintivo. Come sempre la musica è cornice e amplificatore delle vicende a schermo, in un modo che, più avanti, sarà anche contestualizzato nel racconto, ma in questo incipit è palese che la canzone (“Home” di Gabrielle Aplin) esprime anche il senso di casa che subito la cittadina restituisce ad Alex.

Life is Strange: True Colors

Già le prime animazioni facciali di Alex ci avevano fatto intuire la marcia in più che Life is Strange: True Colors aveva ingranato mentre eravamo distratti ad aspettarne l’uscita, ma è in momenti riflessivi come l’arrivo della protagonista ad Haven Springs che si palesa lo step operato da Deck Nine: ogni secondo di silenzio è più maturo, ogni parentesi contemplativa degli splendidi luoghi che ci circondano è più raffinata. L’unico vero difetto che si può attribuire al primo capitolo dei 5 che costituiscono Life is Strange: True Colors è l’anomalo posizionamento di quel violento dramma che aveva caratterizzato fortemente i due precedenti “numerati” (LIS e LIS 2), ma su ogni altro aspetto è una perfetta introduzione al gioco, al potere di Alex, e alle persone e vicende di Haven Springs.

I don’t care if it hurts

Se con il primo episodio, Deck Nine ci aveva regalato un’infarinatura dei vari personaggi e del mood che si respira a Haven Springs, il secondo cerca di mantenere lo status quo a livello emotivo e informativo, dando però ad Alex la possibilità di rileggere il proprio potere in chiave positiva: nel contesto di un evento che non vi spoilereremo, infatti, la protagonista si troverà motrice di un “homo ex machina” che agisce da catarsi emotiva per uno dei comprimari e da chiave di volta, per Alex, della sua apparente “maledizione”.

Life is Strange: True Colors

Il suo potere, inaspettatamente per lei ma prevedibilmente per il “noi” giocatore, può essere direzionato e utilizzato a fin di bene: prendendosi cura del prossimo, finalmente, tutto il dolore vissuto da Alex prima degli eventi di Life is Strange: True Colors ha finalmente un senso, un significato e uno scopo, e lei con essi.

Mano a mano le situazioni nelle quali ci troveremo a dover usare i poteri si faranno sempre più intense, fino all’utilizzo di quella che in alcuni filmati dietro le quinte veniva chiamata Nova, una sorta di immersione completa nell’emozione provata dalla nostra comprimaria che ci permette di vedere il mondo letteralmente come lo vedono loro. La messa in opera di questo particolare utilizzo del potere è molto meno sensazionalistica di quanto vi state probabilmente immaginando, ma rimane narrativamente potentissima.

Life is Strange: True Colors

Non scompare però la cura che Deck Nine mette nello sviluppo di ogni personaggio: Life is Strange: True Colors tiene talmente tanto ai suoi personaggi da dedicare gran parte di un episodio al tentare di far stare emotivamente meglio uno di essi, in una parentesi che ricorda qualcosa già esperito in Life is Strange: Before the Storm (c’entra Steph, senza spoilerarvi troppo).

You’ve got a story you never tell

La formula di Life is Strange: True Colors rimane quella che ci aspettiamo, nella sua completezza, senza però gran parte dei singhiozzi delle precedenti iterazioni.

Life is Strange: True Colors

C’è un particolare che più degli altri distacca True Colors dagli altri: in ogni dialogo e in ogni interazione è impossibile non riconoscere quanto la maggior espressività dei personaggi di Life is Strange: True Colors contribuisca al senso d’immersività; ovviamente non siamo ai livelli di un The Last of Us Part II, ma la sospensione d’incredulità che l’intro ci aveva regalato si mantiene costante lungo tutta la durata dell’avventura, soprattutto grazie al linguaggio paraverbale dei comprimari, sul cui volto possiamo leggere ben più di quanto l’ottimo doppiaggio ci racconta esplicitamente.

Cause I heard the rain, as I felt you coming loose

Se nelle parole di chi scrive avete letto puro entusiasmo per quanto Life is Strange: True Colors mostra, rappresenta ed è, tanto da averci lasciato un vuoto una volta appoggiato il controller all’arrivo dei titoli di coda finali, è giusto raccontarvi anche quello che non funziona, in questo titolo. Diversamente da quanto avvenuto in precedenza, Life is Strange: True Colors viene rilasciato nella sua interezza, privato quindi di quell’attesa che da sempre ha caratterizzato la release di due episodi consecutivi, almeno finora: questo particolare lo si nota, in modo abbastanza evidente, nei finali degli episodi centrali, occasioni nelle quali la narrazione subisce un alt che non funziona come dovrebbe.

Life is Strange: True Colors

Non ci sono i grossissimi problemi di ritmo che un po’ ci aspettavamo, se non in un episodio 5 che, se da un lato decide di prendere un respiro prima del rush finale, dall’altro si dilunga forse un po’ troppo, appiattendo eccessivamente il ritmo che il cliffhanger precedente ci aveva imposto.

Un secondo appunto che si può fare a Life is Strange: True Colors è la gestione degli asset “non essenziali”: più di qualche volta ci è capitato di incrociare un pedone dal volto a bassissima risoluzione, o uno scorcio di paesaggio fin troppo palesemente 2D, ma sono tutti momenti che fortunatamente non riescono a rovinare l’esperienza.


Life is Strange: True Colors è un titolo perfettamente hic et nunc, un gioco che mette al centro l’empatia in un momento storico nel quale più che mai c’è bisogno di pensare al prossimo con la stessa cura con la quale si pensa a sé stessi. I passi avanti fatti a livello grafico viaggiano parallelamente a quelli in ambito narrativo, elementi di un’immersività totale che ci ingloba alle prime battute e che non ci lascia andare fino alla fine dell’esperienza. Volenti o nolenti, Haven Springs è un paradiso che presto noi e Alex chiameremo casa, i suoi abitanti, nostri amici, l’ombra del colosso minerario con qualcosa da nascondere, il nostro nemico. Lasciatevi stringere dall’abbraccio che Deck Nine è pronto a darvi, perché mai com’è ora c’è bisogno di giochi così, pronti a muoverci e commuoverci, e ricordatevi, anche nei momenti più bui, nei quali vi sembra di non sentirvi a casa in nessun posto… la casa non è qualcosa che trovi, è qualcosa che ti costruisci attorno. 

8.7

Pro

  • L'immersività è immediata
  • Il livello grafico è un enorme passo avanti rispetto al passato
  • Il linguaggio paraverbale dei personaggi è potente e significativo
  • Immagini e soundtrack sono il connubio perfetto

Contro

  • Alcuni piccoli problemi di pacing
  • Il senso di vuoto che vi lascia dentro una volta terminato è parecchio brutale
Vai alla scheda di Life is Strange: True Colors
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