Naughty Dog: genesi e costo umano di un capolavoro
Come nascono capolavori come Uncharted o The Last of Us? Cerchiamo di capirlo nel dettaglio.
Nessuno lavora nell’industria dei videogiochi a meno che non ami quello che fa. Nessuno nel team vorrebbe produrre un titolo di bassa qualità. […] L’amore della mia vita arriva a casa in tarda notte lamentandosi di un mal di testa che non passa mai e di una nausea costante, e il mio sorriso felice per dargli supporto si sta esaurendo.
Recitava così un post pubblicato anonimamente dalla coniuge di un dipendente di Electronic Arts che, nel 2004, apriva per la prima volta gli occhi del mondo in maniera lampante su quello che era il duro ambiente di lavoro a cui erano sottoposti i dipendenti di una delle aziende leader nel mondo dei videogiochi. La lettera raccontava di una politica lavorativa capace di ridurre allo stremo la salute fisica e mentale di una persona coinvolta in tali scelte di sviluppo che, benché condannabili, sono lo strumento tramite il quale giungono tra le nostre mani tantissimi giochi odierni, tra cui tanti di quelli che classifichiamo come capolavori: dietro questi successi commerciali spesso si nasconde una controversa gestione delle risorse umane, argomento che torna alla ribalta nel recente caso di Naughty Dog, attualmente al lavoro su The Last of Us Part II.
A una situazione del genere non si è mai davvero pronti: si lavora una vita per dare la luce a mostri digitali che i giocatori potranno abbattere con fucili e spade laser, eppure proprio quelle persone dietro ai lavori che più amiamo spesso combattono contro un mostro reale, che seppure invisibile li insegue nella quotidianità e non se ne va quando si timbra il cartellino per uscire, in ritardo di diverse ore rispetto al canonico turno di lavoro. Non se ne va quando, a tarda notte, si rincasa cercando di guadagnare qualche ora di sonno per riuscire a tenere gli occhi incollati sullo schermo il giorno successivo, ed è ancora lì quando quegli stessi occhi si aprono al mattino presto, doverosamente pronti ad affrontare una nuova estenuante giornata di lavoro. Da esseri umani dobbiamo però imparare a conoscere quello che ci spaventa provando a dargli un nome: questo mostro lo abbiamo ribattezzato crunch.
Se lo sviluppo di un videogioco fosse paragonabile a una corsa su pista, il “crunch time” sarebbe l’esatto momento in cui viene chiesto di premere sull’acceleratore sulla curva prima del traguardo, cercando allo stesso tempo di sterzare e, solo nel caso se ne abbia l’opportunità, con una mano allacciarsi la cintura di sicurezza. Ma le mani non sono mai libere. Alcuni team di sviluppo combattono modus operandi pubblicamente e molto spesso anche internamente, salvo poi arrendersi alle logiche di mercato, che pendono come una scure sulla testa dei malcapitati: nell’istante in cui viene stabilita una data finale per l’uscita si decide anche che le future settimane e mesi che seguiranno saranno composte da sacrifici, compromessi, imprevedibili problemi sulla tabella di marcia. A Naughty Dog lo sanno bene: lo studio che ci ha fornito titoli come The Last of Us, Crash Bandicoot, Jak and Daxter e Uncharted ha da sempre adottato una filosofia volta all’inseguimento del capolavoro, riuscendo spesso nel proprio scopo e sfornando produzioni destinate a fare scuola per gli anni a venire, ma a quale costo?
Come vi abbiamo già raccontato, lo studio di sviluppo californiano lavora duramente per raggiungere quell’eccellenza che tutti noi veneriamo a un prezzo che però è molto elevato: proprio per questo l’azienda è sempre alla ricerca di perfezionisti, persone capaci di non accontentarsi del risultato ottenuto e che di loro spontanea volontà alla fine del turno decidono di lavorare delle ore aggiuntive per rifinire un qualunque elemento di gioco: tutte le diverse parti in causa concordano nel ribadire come non è mai Naughty Dog a chiedere ai dipendenti di lavorare fino a tardi, ma spesso è una decisione presa dal personale stesso.
Ogni piccolo dettaglio presente nei loro videogiochi non è lì per caso ed è frutto di giorni e notti di duro lavoro passate a mettere in pratica idee nate all’improvviso nell’attimo in cui uno dei dipendenti si è alzato dalla propria scrivania, spiegando che secondo lui potrebbe essere bello far sì che Nathan abbia animazioni specifiche in cui cambi marcia mentre guida, o che mentre si arrampica le lastre di metallo si flettano leggermente sotto il suo peso, e tanti altri piccoli dettagli che saltano all’occhio soltanto di chi è particolarmente attento e di cui tanti non noteranno mai nemmeno l’esistenza. Tutto ciò può accadere solo in una struttura come quella di Naughty Dog, dove chiunque ha un’idea può esporla senza preoccuparsi delle gerarchie.
L’esempio di Uncharted 4
La lunga storia dietro lo sviluppo di Uncharted 4 – raccontata dettagliatamente nel libro Blood, Sweat and Pixels di Jason Schreier – è emblematica e fa capire alla perfezione quanto sudore sia stato versato per arrivare a sfornare una delle migliori esclusive PlayStation 4. Nel 2011, mentre parte dello studio festeggiava l’uscita di Uncharted 3, si ragionava già sulla struttura del suo seguito, per il quale erano previste sostanziali novità. Una delle idee principali era quella di portare avanti un titolo dove Nathan Drake non avrebbe avuto armi per buona parte della sua avventura, focalizzandosi sul combattimento corpo a corpo e cambiando quindi drasticamente l’idea di scontri con armi da fuoco su cui erano basati tantissimi momenti dei primi tre capitoli.
Mentre queste idee prendevano corpo, i due dipendenti dello studio, nonché grandi amici, Bruce Straley e Neil Druckmann erano al lavoro come co-director su un nuovo progetto, completamente diverso dal mood di un Uncharted. Essendo i lavori per Uncharted 3 ormai conclusi, gran parte dello studio fu riversata su questo nuovo titolo, che avrebbe visto la luce soltanto nel 2013, con il nome di The Last of Us; quest’opera avrebbe tenuto impegnato il team fino al 2014 (con l’uscita del DLC Left Behind), creando problemi di carenza di personale a lavoro su Uncharted 4. Nel marzo del 2014, poco più di due anni prima dell’uscita di Uncharted 4 sul mercato, l’allora game director e altre figure di riferimento del progetto si licenziarono da Naughty Dog perché frustrate dalla situazione, lasciando ufficialmente l’ultima avventura di Nathan Drake senza nessun conduttore.
Una situazione che avrebbe colto alla sprovvista chiunque, ma che fu affrontata in maniera immediata dai dirigenti dell’azienda, che decisero di affidare il timone al duo Druckmann-Straley; una scelta che richiese enorme spirito di sacrificio da parte dei due director e di tutto lo staff, esausto dal lavoro necessario per portare a termine The Last of Us e ora, improvvisamente, nuovamente alle prese con un progetto che se possibile richiedeva ancora più impegno e un dispendio di energie elevatissimo. Druckmann e Straley non facilitarono il compito e scelsero di non accontentarsi: molto del lavoro già svolto per Uncharted 4 fu cestinato, parte della trama rivista, l’idea di lasciare Nathan Drake senza armi per metà del gioco abbandonata.
Uno dei modus operandi per capire quali parti del gioco mantenere e su quali invece lavorare per effettuare delle modifiche prevedeva il porre numerosi playtester che non avevano mai provato il titolo di fronte a uno schermo per giocare a Uncharted 4, studiando poi le loro reazioni: in quale punto dell’avventura questi rimanevano bloccati e non sapevano cosa fare? C’era qualche istante in cui i tester sembravano annoiati o frustrati dai continui tentativi? Un lavoro del genere permetteva di evidenziare le parti critiche sulle quali lavorare e quali invece si potevano mantenere intatte, mettendo sempre in discussione tutto e non avendo paura di lavorare nuovamente dall’inizio una parte di gameplay, se non si era convinti al 100% che sarebbe stata apprezzata dal pubblico.
Perché il problema di un gioco e di molte produzioni artistiche – come spiega Evan Wells, presidente di Naughty Dog – è che è praticamente impossibile preparare un progetto chiaro e poi rispettarlo in ogni suo punto, ma bisogna reinventare tutto in continuazione: Naughty Dog eccelle proprio nel sapersi reinventare e nel mettersi sempre in discussione; nel processo produttivo non è possibile definire in maniera chiara nulla, non si può prevedere a un determinato punto dello sviluppo quanti bug avrà il gioco, quanto saranno divertenti le varie meccaniche implementate, quanto tecnicamente sarà stabile: bisogna fare previsioni e, nel caso si sbagli, porre rimedio mettendo lavoro extra nel progetto, sperando che in qualche modo si riesca a rosicchiare qualche giorno in più per continuare a lavorare fino all’ultimo istante disponibile.
Uncharted 4 alla fine è arrivato sul mercato il 10 maggio 2016 dopo due posticipi della data d’uscita: un tempo aggiuntivo che ha permesso a Naughty Dog di rifinire ulteriormente l’opera. La politica adottata per lo sviluppo non è però rimasta senza conseguenze: un corposo numero di dipendenti ha deciso di abbandonare l’azienda a fine progetto, con lo studio costretto ad assumere nuovi dipendenti che – come primo progetto per Naughty Dog – avrebbero lavorato su un altro attesissimo sequel: The Last of Us Part II, con tutte le conseguenze del caso.
Quello che ha evidenziato questa vicenda è come, nonostante tutto, Naughty Dog sia riuscita a produrre un risultato finale strepitoso, merito del perfezionismo di ogni singolo dipendente e della stessa struttura dell’azienda: l’assenza di produttori implica la mancanza della figura che tiene traccia di chi lavora su cosa, ma permette allo stesso tempo un approccio più immediato. Un programmatore ha un’idea? Si alza dalla scrivania e si dirige dai designer per esporla: un ambiente di lavoro inusuale, ma che è stato capace nel corso degli anni di fornire perle come Uncharted 4. Inusuale è l’ambiente di lavoro e inusuale è la conclusione di un progetto dalla portata così grande, dallo sviluppo talmente travagliato da far credere a molti che, se non si stesse parlando di Naughty Dog e del suo incredibile team, non sarebbe mai stato portato a termine in tempo.
Mai come quando si parla di questo studio ci si riferisce a un gruppo di lavoratori appassionati, dove ci si può permettere di non pretendere che nessuno resti oltre l’orario di lavoro perché sarà la voglia individuale di far uscire il miglior prodotto possibile sul mercato a vincere quel buonsenso individuale che farebbe dire semplicemente “Ho finito il mio turno, devo tornare a casa“. Una situazione descritta alla perfezione da Walt Williams, scrittore che ha preso parte ad alcuni tra i migliori titoli della storia recente: “È facile odiare il crunch quando non ti piace il risultato finale. Quando invece si produce un gioco che il pubblico ama, allora non è stato crunch, ma passione. È la bugia che ci diciamo, perché è quella che ci fate credere: rifiniture e innovazione arrivano a un certo prezzo“.
E The Last of Us Part II?
Ma in sostanza, l’esperienza di Uncharted 4 è servita a qualcosa? Può una situazione del genere essere un monito per il futuro? Inizialmente sembrava così: con The Last of Us Part II Naughty Dog ha cercato di organizzare tutti gli aspetti del gioco in anticipo rispetto alle classiche tabelle di marcia. Ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e, durante la preparazione di una demo per l’E3 2018, sono arrivati feedback negativi su alcuni aspetti dell’opera: si è passati quindi a operare un’attenta revisione, con ogni piccolo cambiamento che può richiedere mesi extra di lavoro e la cancellazione completa di parti su cui già si era speso diverso tempo; benché lo studio sia abituato a simili decisioni drastiche, è innegabile che queste avranno poi pesanti ripercussioni. E fu così che – due anni dopo l’esperienza Uncharted 4 – già nel 2018 Naughty Dog era in pieno crunch per il nuovo The Last of Us.
Sostanzialmente, quindi, la programmazione si è dimostrata ancora una volta necessaria ma non sufficiente a facilitare il lavoro sul progetto. “Per risolvere il crunch, la cosa migliore che si possa fare è dire: non cercare di fare il gioco dell’anno“, spiega Druckmann stesso, “Abbiamo provato a fare questo con Uncharted 4, iniziando a preparare molto in anticipo rispetto al solito la storia in tutte le sue parti dall’inizio alla fine. Ma invece di ridurre il crunch, il risultato è che abbiamo fatto un gioco ancora più ambizioso, con persone che lavoravano ancora di più“. Sostituendo Uncharted 4 con The Last of Us Part II, è facile capire come la storia si è ripetuta anche in questa nuova produzione, e le ambizioni immense del titolo hanno ancora una volta fagocitato le speranze di un ritmo di sviluppo normale. In un clima di lavoro sicuramente concitato per la necessità di rispettare tutte le scadenze, non può che essere accolta con un sapore dolceamaro la notizia del posticipo della data d’uscita da febbraio a maggio 2020: da un lato i dipendenti sanno di avere più tempo per completare e rifinire il gioco; dall’altro punto di vista, però, il posticipo non è orientato a un rallentamento del ritmo di sviluppo, tutt’altro, cosa che implica quindi ulteriori mesi di duro lavoro extra e quindi un crunch che si prolunga nuovamente.
Quando ci troviamo di fronte a Naughty Dog ammiriamo uno studio dotato di un team composto da alcuni tra gli elementi più talentuosi del panorama moderno videoludico. La qualità delle produzioni arriva però a un prezzo elevato, con ritmi forsennati che portano a un continuo ricambio di personale che – per forza di cose – diminuisce in esperienza e porta a continui inciampi nello sviluppo; di fronte agli innegabili capolavori dello studio, bisogna chiedersi se il gioco valga la candela e se questa politica sia sostenibile in futuro: perché, come Nathan Drake ci insegna, prima o poi arriva il momento di dire basta.