The Gaming Society – Il Game Over non è mai la fine
Perché nei videogame si muore? Il nostro punto di vista su una questione complicata
L’uomo è un essere limitato, non solo fisicamente ma anche e soprattutto temporalmente. Nonostante I nostri sforzi complessivi, che siano essi puramente estetici o più intensivi e profondi, ogni esistenza biologica potrebbe essere riassunta geometricamente in un segmento che, come Pitagora ci insegna, ha un inizio e una fine: la morte. Tecnicamente, morire significa cessare di esistere biologicamente e corporalmente, in quanto sistema meccanico composto di più parti che governano più funzioni adibite a svolgere vari compiti, tutti più o meno egualmente necessari per sopravvivere. Ma, guardando alla storia e all’evoluzione socio-culturale dell’uomo, la morte non può esser semplicemente imbrigliata in schemi logico-scientifici, così come la stessa sorte tocca al concetto di vita. Vita e morte sono legate a doppio filo e sono sostanzialmente un paradigma, un dogma assoluto a cui è difficile sfuggire anche solo concettualmente. Ma facciamo (parecchi) passi indietro…
Il concetto di inizio e fine sono ovviamente presenti, in modo molto più leggero, anche nel nostro settore hi-tech preferito, ovvero quello elettro-ludico. Lo spettro che abita le nostre memorie di videogiocatori – il tanto temuto “Game Over” – oggi è un’idea un po’ più liquida e astratta del semplice e manicheista duopolio vita/morte a cui videogame della “preistoria tecnologica” ci hanno lentamente abituato. In generale sin dall’alba del settore, la gran parte dei videogame è stata sin da subito strutturata sul concept di “die and try again”, con il risultato quasi naturale che vede l’idea stessa di morte totalmente spogliata dell’alone tragico che assume nell’esistenza “vera” o in altri medium sociali “passivi”, per assumere in linea di massima colori di pura routine nel gioco. Morire è dunque lo scheletro su cui si fonda l’apprendimento ludico, il motore immobile che regge il gioco stesso e che alimenta e sviluppa la crescita delle abilità del giocatore stesso.
In questo frangente però, la morte è trasposta in maniera puramente meccanica in correlazione all’ossatura stessa del gioco, concepito come un sistema di regole sottese a un impianto narrativo che lo avvolge.
Ma a questo punto una domanda spontanea: perché nei videogame si muore? Rispondere a questa domanda non è esattamente semplice e dipende da tanti fattori. Innanzitutto, la morte è ciò a cui dobbiamo sfuggire, è l’accoglienza terribile che ci riserva chi ci si oppone, il “nemico”, nell’attimo in cui sbaglieremo. Un nemico che ci vieta con tutte le sue forze computazionali di portare a termine il nostro compito, punendoci con la dipartita appunto, e quindi con il finire del gioco, sinonimo della morte dello stesso.
Potremmo quindi riassumere dicendo che molti giochi ci lanciano una velata sfida a non morire, volta paradossalmente al conseguimento dell’obiettivo di essere infine noi stessi a far “morire” i ludi completandoli. Ed è bene notare che l’appagamento del “vero” giocatore arriva al raggiungimento dell’obiettivo di concludere il titolo completamente, magari alla massima difficoltà. Ovvero, il concetto di cui prima, elevato esponenzialmente: la morte (evitata) è sintomo di abilità, capacità ludiche e vittoria sulle avversità.
Ma cosa ne pensano gli esperti? Markus Montola, ricercatore e psicologo della Tampere University in Finlandia, ha definito la morte nei videogame come:
“Un fattore che provoca enorme fastidio nel giocatore, per una moltitudine di motivazioni. Quindi, evitare la morte e dimostrare a noi stessi la capacità di farlo diventa un po’ il senso del gioco stesso, il motivo per cui giochiamo”
È la morte quindi il senso stesso della “vita ludica”? Il ricercatore sostiene che nei videogame esistono tre tipologie diverse di motivazioni che ci spingono a giocare, ovvero:
- Motivazioni Endogene: sono motivazioni insite all’interno del gioco stesso, come aspirare al suo completamento.
- Motivazioni Esogene: sono motivazioni che giacciono “all’esterno” del gioco stesso e che ci spingono ad agire. Esse possono essere variabili e dai toni “cromaticamente” differenti, andando dal semplice divertimento al primeggiare sugli altri.
- Motivazioni Diegetiche: sono motivazioni di carattere “virtuale” che si innescano nel momento in cui il gioco si tramuta in un meta-gioco, andando a sviluppare una realtà alternativa parallela alla nostra. Ad esempio, quando si sceglie di affrontare un RPG tentando di immedesimarsi totalmente nel personaggio, al fine di agire endogenamente in un modo verosimile e coerente con il personaggio stesso.
La commistione di queste tre particolari tipologie di motivazioni, ci fanno bene intendere anche il valore strumentale della morte la quale, com’è ovvio e logico pensare, è sottesa e sottostante a ognuna delle suddette varietà di scopi e – che ci piaccia oppure no – costituisce un paradigma quasi assoluto che ci accompagna nel corso delle nostre scampagnate virtuali. Ma nei giochi si muore anche per ragioni meno nobili e intricate, perché i videogame sono innanzitutto un business fine a se stesso, e soprattutto se si tratta di prodotti di qualità o (astutamente) concepiti al fine di piacere, presuppone e stimola l’appetito per un ipotetico successore.
A questo punto, il lettore attento potrebbe esclamare: “E gli MMO?”. Ebbene, nei giochi massivi online esiste eccome la morte. Non è solo quella che decreta una sconfitta in PVP o la fine prematura di un dungeon, ma è anche quel “muro morbido” che limita il contenuto complessivo a cui è possibile accedere. Di cosa stiamo parlando? Ma del “senso di gioco massivo”, ovvero le motivazioni che ci spingono a giocare a titoli online spesso infiniti ed estremamente ripetitivi nei concetti e nei contenuti. Titoli quindi concettualmente “morti” ma che continuano magicamente a respirare grazie all’abbattimento regolare del contenuto, a cui succede logicamente l’innalzamento di un altro contenuto quasi identico e comunque limitato nel tempo e nello spazio “virtuale”. Per questo, negli MMO la morte, intesa come fine, è semplicemente cambiata d’abito, quasi un’alternanza fra letargo e vita, ma resta sostanzialmente invariata rispetto alla controparte offline.
Addentriamoci adesso all’interno dei nostri ludi preferiti: come I videogiochi rappresentano la morte? Nel corso dell’evoluzione tecnologica, il concept proposto è andato via via allargandosi e liquefacendosi. Se pensiamo ai vetusti coin-op, come lo stesso Pac-Man o un Ghosts ‘n Goblins, spesso spietati e difficili anche a causa delle limitazioni hardware del tempo, essi erano sostanzialmente concepiti per esser “mangia-soldi”. Nonostante avessimo più tentativi a disposizione, terminati quelli la morte era definitiva. Tutto perso.
Un ciclo chiuso ma che poteva a questo punto esser riaperto con una nuova monetina, creando a sua volta un ciclo “esterno” potenzialmente infinito. Quindi, la facilità di morire (ergo, la difficoltà) in quei giochi era anche strutturalmente elaborata affinché il gioco guadagnasse monetine e fosse quindi, richiesto dalle varie sale giochi o luoghi di culto elettro ludici.
Nonostante l’indubbia evoluzione tecnico-concettuale, la spietatezza “inside” dei vecchi titoli è facilmente rintracciabile in alcuni titoli moderni, fra cui autentiche perle che hanno addirittura inaugurato veri e propri filoni ludici. A cominciare dalla serie Demon/Dark Souls, paradigma assoluto di difficoltà e di Game Over in un settore che spesso tenta con ogni mezzo di mascherare il proprio “accompagnare” il giocatore nelle traversie. La serie targata FromSoftware potrebbe essere rappresentata come un infinito quanto cristallizzato loop di difficoltà, dove la morte è una punizione estrema in un mondo statico e rigidamente legato alle proprie regole, immutabile nei pericoli che nasconde.
Nei Dark Souls, il nemico occupa sempre lo stesso posto a ogni run, quasi a rappresentare una sorta di “concetto fermo” come a dire che la morte è qui, ti aspetta in questo punto e tu lo sai. L’impressione che ne consegue sembra suggerire che un gioco standard ponga la morte del giocatore come una punizione a cui sfuggire, pena il mancato completamento dell’obiettivo finale. Dark Souls ragiona in un modo più ampio: la morte è solo il risultato della disobbedienza alle sue regole ferme: paradossalmente infatti, per terminare Dark Souls dovremo ciecamente obbedire alle sue regole spietate, scoprendo che ogni sconfitta rimediata è un colpo sempre più “letale” affondato nel corpo del gioco stesso.
Un’altra serie tripla A che sicuramente ha “reinventato”, almeno in modo parziale, il concetto di morte è la saga di Shadow of Mordor, Il titolo Warner Bros. – incentrato nel nostro continuo scontrarci con l’esercito orchesco – che ha rappresentato la morte come una doppia punizione. Infatti ogni qual volta verremo uccisi, l’esercito nemico si potenzierà ulteriormente con nuovi orchi dai poteri speciali, i quali ci riconosceranno e scherniranno in battaglia proprio a causa della “morte passata”. In questo frangente, oltre a dover magari ricominciare da capo una missione, la morte nel gioco ha un peso specifico differente che andrà, in modo relativo, a impattare sulla difficoltà del gioco stesso. In Shadow of Mordor, la morte sembra percorrere una via bi-univoca e dare tanto al giocatore quanto all’IA possibilità molto simili. Infatti, tramite l’uccisione dei nostri nemici noi diverremo più forti ma la stessa sorte toccherà ai nostri nemici, che diverranno via via più potenti man mano che avranno la meglio su di noi. In generale, la morte nel titolo sembra esser ricercata da entrambe “le fazioni”, al fine di diventare il più potente possibile e fronteggiare al meglio l’avversario.
Facciamo un passo temporale all’indietro. Chi di voi ricorda lo shooter Prey, pubblicato da Human Head Studios in collaborazione con 3D Realms nel 2006? Il titolo, uno sparatutto in prima persona sci-fi e dalle sfumature post-apocalittiche, ci narrava la triste e violenta novella di una razza umana invasa da una crudele stirpe aliena. In quel gioco, la morte era un semplice passaggio, una pausa di “riflessione”, infatti, una volta sconfitti il gioco ci rimandava in una dimensione parallela dove, sotto forma di spirito, avremmo dovuto combattere per far finalmente ritorno alla nostra realtà di carne. In questo modo, la morte in Prey era un step necessario, un passaggio obbligato e una sorta di purgatorio in cui “riflettere” sui nostri errori. L’idea alla base, tralasciando le pure meccaniche del titolo, può trovare allacci semantici con una sfilza quasi infinita di culture e tradizioni ma, data l’appartenenza del protagonista a una tribù indiana, la strutturazione è un chiaro riferimento alla credenza culturale secondo cui la morte fosse unicamente un passaggio etereo verso un’altra esistenza materiale. Al contrario di Souls, Prey ci lascia fallire e sbagliare senza mai obbligarci a rispettare a capo chino le sue regole. Alla base il gioco indicava una via costellata di “try and fail” per giungere infine al suo atteso epilogo, quasi fosse una lenta “elevazione” a uno stato superiore facendo da spola tra un mondo spirituale e uno materiale.
Ma esistono anche esempi “minori” che ben rendono l’idea di come gli sviluppatori abbiano affrontato negli anni il concetto di “Game Over”. Ad esempio, in Rogue Legacy, un action/platform roguelike, ogni personaggio è unico e, alla sua morte, è perso per sempre. Ma dov’è allora la particolarità? Alla nostra morte, potremo scegliere un nuovo personaggio con abilità differenti, un po’ più potente e che erediterà appieno il nostro equipaggiamento. In questo modo, nel gioco la morte non è null’altro che un level up mascherato e reso in modo diverso concettualmente.
Un altro divertente esempio di concretizzare nella morte una feature alternative è sicuramente Transistor, un divertente Action/GdR in cui, in seguito alla morte, si verrà puniti con l’impossibilità di accedere a un potere specifico del proprio personaggio (il quale si potrà comunque recuperarlo nel corso del gioco). Il messaggio del titolo potrebbe essere quello in cui la morte è si un meccanismo che “prende” qualcosa ma che, al contempo, dona la possibilità di esplorare e riadattare quel “vuoto preso” al fine di modificare il proprio stile di gioco: in parole povere, la morte è privazione ma anche unica possibilità di cambiare radicalmente e migliorare.
L’industria videoludica moderna ci ha abituato a intravedere la morte “personale” del giocatore intesa come game over, come una stasi temporanea, un errore a cui possiamo rimediare subito. Un qualcosa che appunto non è più propriamente giusto chiamare morte (concepita come una cessazione definitiva) ma piuttosto una sorta di passaggio a ritroso. Il game over stesso, inteso invece come fine della storia e dei contenuti, è stato da tempo liquefatto ed esteso, con l’aggiunta di una componente multiplayer, altre modalità o sistemi più intricanti. In questo frangente, potrebbero essere citati due giochi come esempio lampante: il primo, Freedom Wars, è un interessante action in terza persona per PlayStation Vita che prende le mosse dal genere inaugurato da Monster Hunter.
In linea di massima, finita la campagna, avremo “l’obbligo” in quanto guardiani di una comunità, di continuare a combattere giganteschi demoni per far si che il nostro gruppo ottenga la risorse necessarie. Ad aggiungere un pizzico di pepe alla formula, c’è l’aggiunta di una leaderboard speciale che vede gareggiare tutte le community del mondo fra loro, in una sorta di competizione nella raccolta di risorse. Altro esempio potrebbe essere il sottovalutato Metal Gear Survive, in cui alla fine della storyline resteremo con il compito di far sopravvivere la nostra comunità procurandoci tutte le risorse necessarie, dal cibo alle armi ai materiali di costruzione.
In questa breve e modesta panoramica, una domanda è forse lecito porsi: c’è davvero bisogno di morire nei videogame? In linea di massima, per come è stato concepito il ludo moderno, che è nulla più che una naturale evoluzione dei board game e dei giochi comunitari ancora prima d’essi, è pressoché impossibile non segmentare l’esperienza ludica e obbligarla ad avere un rischio nel suo esperirla e una fine che gli dia una identità. Infatti, la differenza sostanziale tra un media passivo e uno attivo è appunto l’interazione ossia la possibilità di orientarne l’esistenza o almeno avere la sensazione di farlo, visto che anche nei giochi più liberi avremo comunque una serie di opzioni limitate. L’interazione non sbriglia chi utilizza il media della necessità di comprenderne il senso o di arrivare alla fine dei contenuti che esso stesso porta con sé.
Paradossalmente, frapporre fra l’utente e la fine del contenuto stesso una serie di biforcazioni e difficoltà di interazione, serve appunto per stimolare ancora di più quel senso di necessità di completamento nell’utente, per aumentarne il coinvolgimento emotivo e rendere volutamente il messaggio più forte e l’immersione più duratura. La morte, intesa come game over e fine del gioco, serve proprio a racchiudere l’esperienza ludica in confini ben precisi, necessari per renderla appunto esperienza unica e per darle una identità, limitata dal fluire delle altre esperienze. Identità, quindi, significa confine e confine significa identità, intesa come “faccia unica” di una serie e mescolanza di strutture, meccaniche e scelte diverse, eterogenee e amalgamate per costruire appunto l’identità.
TL;DR? In sostanza, nemmeno nella realtà ludica si può realmente sfuggire al concetto di fine.