Il ritorno del RE: da Resident Evil a Resident Evil 2
Se siete tra i sostenitori del “i sequel non sono mai belli tanto quanto l’originale” prego, prendete pure un numero e mettetevi in fila, pronti a calare le braghe di fronte alla nostra inattaccabile arringa. Ci basterà una mera lista di titoli per farvi immediatamente riflettere: Tomb Raider II, Uncharted 2, Doom II. Dobbiamo continuare? Va bene, continuiamo: Street Fighter II, BioShock 2, Super Mario Galaxy 2. E poi, ovviamente, Resident Evil 2. Dopo avervi parlato dei suoi due dischi di puro terrore, in questa seconda puntata della rubrica Il ritorno del RE vi porteremo indietro nel tempo per ripassare un po’ la travagliata e avvincente storia che ha sancito il definitivo accesso di Resident Evil nell’olimpo dei survival horror.
Nel mondo dei videogiochi pochi anni corrispondono a un’eternità in termini di passi avanti tecnologici, ed ecco che l’ormai adolescente Resident Evil si apprestava, nel 1998, a uscire di casa per affrontare il mondo. La casa era villa Spencer, il mondo era quello di una PlayStation in grande spolvero: ce le stavamo ancora dando di santa ragione sui ring di Tekken 3, mentre all’orizzonte si stagliava già prepotente la livrea argentea del Metal Gear, che a fine anno avrebbe definitivamente convertito anche i più scettici al culto del Dio Kojima. Difficile distinguersi dal coro in mezzo a tanta abbondanza eppure, forte dell’incredibile successo del primo capitolo, Resident Evil 2 era pronto a travolgerci con un’esperienza indimenticabile, ostentando una sicurezza di sé che gli permetteva di guardarci dritti negli occhi a testa alta.
Ma andiamo con ordine, perché il processo che ha portato RE2 a essere quello che è stato – e che sarà nuovamente, con l’uscita del remake su cui non vediamo l’ora di mettere le mani – è stato travagliato e irto di pericoli quasi quanto lo sviluppo del T-Virus: quando ti accorgi di aver creato un capolavoro non puoi certo fare passi falsi, e Capcom sapeva perfettamente di dover procedere con i piedi di piombo per dare ai fan l’esperienza di assoluta qualità che si aspettavano. Proprio per questo motivo, il Resident Evil 2 che tutti conosciamo non ha niente a che fare con il Resident Evil 2 su cui il team creativo ha iniziato a lavorare dopo il primo RE.
Il primo, vero tentativo di dare un seguito al capostipite dei survival horror dell’era moderna era stato infatti Resident Evil 1.5: con parte dello staff al lavoro su Resident Evil: Director’s Cut (versione riveduta e corretta di RE che sarebbe poi stata presa ad esempio per il remake uscito anni dopo su GameCube e riproposto più recentemente su PlayStation 4) le condizioni non erano certo le più idilliache, data anche la pressione che sicuramente l’hype dell’utenza generava in chi si ritrovava la responsabilità del progetto sulle spalle. Hideki Kamiya (papà di Devil May Cry e Bayonetta), scrittore e direttore del progetto a fianco del produttore Shinji Mikami, iniziarono a lavorare al progetto Biohazard 2 Prototype con l’intenzione di portare l’orrore su PsOne e Sega Saturn già nel 1997.
Nella fase embrionale del progetto erano già presenti buona parte delle idee che sarebbero poi confluite nel gioco che tutti oggi conosciamo, anche se con il senno di poi condividiamo l’incertezza che ha portato a fare tabula rasa di questo gioco in favore di Resident Evil 2: Leon, nella veste di poliziotto fresco di accademia, è forse il personaggio che più è rimasto fedele al canovaccio iniziale; Ada Wong si chiamava Linda, e il suo ruolo era più marginale; Elza Walker era una studentessa del college, e solo in RE2 si sarebbe trasformata nel personaggio di Claire Redfield. Queste sono soltanto le differenze più superficiali: l’idea di RE 1.5 portava con sé anche molte armi, la possibilità di smembrare gli zombi in maniera decisamente cruenta e una stazione di polizia moderna, in una Raccoon City più metropolitana di quella che oggi tutti conosciamo.
Ecco, forse è proprio questa la differenza sostanziale che ha permesso a Resident Evil 2 di entrare nei nostri cuori e lasciare un segno indelebile: la stazione di polizia di Racoon City non è la casa degli Spencer. Nella sua versione finale in RE2, però, è una sorta di labirintica casa delle streghe, tanto improbabile quanto terrificante. In questo modo si mantiene il fascino della magione infestata del primo RE ma la si contestualizza in un ambiente ben più ampio e labirintico, che permette di affiancare enormi sale a claustrofobici corridoi, immense fognature a laboratori degni del miglior Dottor Frankenstein.
La stazione di polizia è la vera star silenziosa di Resident Evil 2, l’attrice non protagonista che si prende gioco dei personaggi dell’opera, assistendo alle loro (dis)avventure come un titanico, immobile terrificante testimone. I dipinti alle pareti, i tappeti, le enormi porte in legno, gli enigmi che non avrebbero alcun senso di essere lì, sono tutti elementi di un grottesco incubo perfettamente architettato che, con la stazione da polizia travestita da cattedrale gotica, fa paura tanto quanto la tetra magione degli Spencer.
Ma chiudiamo questa digressione alla what if e torniamo alla realtà: l’apocalisse zombie è avvenuta. Il virus della Umbrella è ormai fuori controllo e Raccoon City è perduta. Elza non esiste e cede il posto a Claire, che è alla disperata ricerca del fratello. Leon è (povero lui) in procinto di affrontare il peggior primo giorno di lavoro che l’umanità ricordi. Questo è Resident Evil 2 e noi – che nel frattempo siamo tornati ragazzini e, di fronte a una TV a tubo catodico, abbiamo appena finito di pranzare in compagnia della Jalappa’s Band e di Mai dire TV – stiamo per inserire nella PlayStation un gioco che ci stregherà così tanto da tenerci incollati al video fino a sera.
Tanto da farci (quasi) dimenticare quanto ci era piaciuto giocare nei panni di Chris e Jill due anni prima. Tanto da farci essere qui ancora oggi pronti a festeggiare un ventennale coi fiocchi con Resident Evil 2 Remake.
Lo abbiamo già detto e lo ribadiremo fino allo stremo: questo Resident Evil promette di trascendere il concetto di Remake e, se dovesse riuscire nell’intento, alzerebbe irrimediabilmente l’asticella per tutti gli sviluppatori che si troveranno in futuro a rimaneggiare la riedizione di qualsiasi titolo. La qualità di base c’è e non si discute, la sfida da vincere sarà riproporre in chiave moderna tutte quelle geniali intuizioni che oggi moderne non sono più: partendo dall’apertura delle porte e passando per l’impossibilità di muoversi e sparare contemporaneamente, fino alla gestione fissa della telecamera, sarà interessante vedere come Capcom riuscirà a svecchiare tutte queste meccaniche di gioco senza snaturare lo spirito di Resident Evil, il tutto senza rovinare quell’aura di terrore che aleggia sulla centrale di polizia, elemento più importante e chiave di volta che ha permesso di mantenere molte meccaniche di Resident Evil anche in Resident Evil 2.
La cancellazione di RE1.5 in favore di RE2 è la dimostrazione di quando la software house nipponica abbia dimostrato di tenere alle proprie creazioni, tanto da mettere in dubbio un intero progetto pur di fare la felicità dei propri fan. Puntiamo quindi tutto sui corsi e ricorsi storici e non vediamo l’ora che la storia si ripeta, permettendoci di rivivere con le stesse emozioni di vent’anni fa il survival horror che ha fatto la storia.