Competere nel 2018: Smash Bros. e la Nintendo Difference

I picchiaduro attraverso i secoli

Il “Momento 37” è in assoluto l’episodio più rilevante della storia dei picchiaduro: su di esso è stato scritto un libro, girati documentari e con un record di 30 milioni di visualizzazioni rappresenta uno dei momenti più incredibili della storia delle competizioni virtuali.

Esso narra la storia di quello che in gergo tecnico viene definito “Comeback”, un recupero impossibile compiuto da Daigo Umehara che, per trionfare nella semifinale dell’Evolution Championship Series 2004 (EVO 2004), ha dovuto parare con il suo Ken la mortale Super di Chun Li, guidata dalle sapienti mani di Justin Wong. Si tratta di eseguire 15 parry (muovere in avanti lo stick per eseguire la parata perfetta in grado di assorbire il 100% del danno) ad intervalli irregolari gli uni dagli altri in finestre lunghe 10 frame, ovvero 1/6 di secondo. Anche solo un impercettibile ritardo sarebbe stato a Daigo fatale.

Sono passati quattordici lunghissimi anni da quell’iconico momento e da Street Fighter 3: 3rd Strike siamo giunti al quinto capitolo della serie di picchiatori di Capcom. Al giorno d’oggi non sarebbe possibile assistere a una scena così emozionante, dietro la quale si celano centinaia di ore di dedizione e studio, semplicemente perché l’ultimo capitolo di Street Fighter non ce lo permetterebbe. Parare quella successione di colpi di Chun-Li sarebbe un gioco da ragazzi, perchè Capcom ha scelto deliberatamente e pubblicamente di ridurre in maniera drastica il livello di abilità necessario ad eseguire una simile parata.

Chiunque può essere il nuovo Daigo Umehara

Perché ridurre in maniera così drastica il tetto massimo di abilità raggiungibile? Perché giocare a livello competitivo richiede tantissime ore di apprendimento e probabilmente dopo centinaia di ore ancora avremmo un’infinità di nozioni da imparare e con cui familiarizzare. Per il giocatore competitivo tutta questa fatica è non solo accettabile, ma parte del divertimento legato ad imparare un nuovo titolo, attirato come mosca al miele dalle profondità meccaniche e dalla promessa di un gameplay appagante.

Competere nel 2018: Smash Bros. e la Nintendo Difference

Con l’invasione di mercato di un’enorme fetta di pubblico che fino a qualche anno prima non sarebbe mai orbitato attorno al genere competitivo di combattimento, ogni compagnia è stata chiamata ad operare delle scelte. Per quanto riguarda Street Fighter, Capcom ha semplicemente deciso di uccidere la fase di apprendimento riducendo drasticamente la skill necessaria ad eseguire combo, parare attacchi e così via dicendo. Ridurre significativamente la distanza che separa un giocatore professionista da un occasionale si è rivelata tuttavia per molti aspetti una scelta condivisibile per creare uno show da guardare: avvincente e dall’esito mai scontato.

Bello da vedere, ma da giocare?

Bandai Namco non è stata da meno. Proprio in questi giorni non si parla d’altro che del SoulCalibur VI di prossima uscita e di come sia stato snaturato per essere reso più accessibile ai neofiti: basti pensare che nelle demo finora rilasciate con la pressione di un tasto potremo sfidare il nostro avversario durante uno spettacolare slow motion ad un banalissimo duello di carta-sasso-forbice in grado di infliggere danni veramente ingenti. Quanto siamo distanti dal Soulcalibur II (al di là di quel che dicono gli sviluppatori quando asseriscono che la velocità e fluidità di gameplay sarà un grande ritorno al glorioso secondo capitolo), che diede fama e lustro alla serie?

Competere nel 2018: Smash Bros. e la Nintendo Difference

Perché inserire la dinamica della fortuna (cerchiamo di evitare facili speculazioni circa l’abilita di lettura dell’avversario durante un agguerrito match di morra cinese), all’interno di un sistema che dovrebbe premiare l’abilità? Semplice. Perché perdere a causa di un colpo di sfortuna non incide in alcun modo sul nostro ego. La maggior parte dei Party Game sono infatti imbevuti di meccaniche casuali, e non è raro che vinca perfino il giocatore che partecipa la prima volta; non è richiesto un allenamento e si può competere grazie alle nostre doti naturali.

Cambiamenti inevitabili

Perfino Arc System Works – il colosso di Yokohama patrono dei picchiaduro anime che prima di essere giocati degnamente sottopongono il giocatore alla scalata di un muro apparentemente insormontabile composto da micro-meccaniche, frame maniacali e movimenti di polso che hanno dato lavoro a due generazioni di fisioterapisti – sta cambiando volto. Nell’eccellente Dragon Ball FighterZ rilasciato il 26 Gennaio scorso, spinta dalla necessità di avvicinare la fetta di pubblico che rifuggiva i suoi titoli di punta (come Blazblue e Guilty Gear), e forte della licenza di Dragon Ball, amatissimo brand fino ad allora (re)legato a titoli accessibili e divertenti, ha avuto l’ingegnosa trovata di inserire le combo automatiche.

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Ogni personaggio possiede due “auto combo”, rispettivamente eseguibili premendo ripetutamente l’attacco leggero e l’attacco medio: nella versione media se il giocatore è in possesso di almeno una barra il suo personaggio lancerà autonomamente perfino una super. In realtà le combo automatiche permettono ai neofiti di scontrarsi in una festa di button smashing in grado di produrre su schermo dei risultati molto appaganti, e per i giocatori avanzati le combo automatiche non sono da prendere in considerazione perché l’output di danno è moderatamente inferiore a quello di una combo completa. Una soluzione geniale, se non fosse che perfino in Dragon Ball FighterZ il tetto massimo di abilità è nettamente inferiore ai titoli canonici di Arc System.

Pugni non proprio d’acciaio

Perfino Tekken 7 in una delle sue ultime patch (se non proprio durante l’ultimo aggiornamento corposo), ha visto l’aggiunta delle tanto discusse combo automatiche, tuttavia Harada deve aver fatto una gran confusione, perché invece di fondere le auto combo in maniera armoniosa con il gameplay come in Dragon Ball FighterZ le ha sovrapposte alle mosse normali, rendendo vitale la disattivazione di queste tramite apposito menu, pena l’impossibilità di giocare di testa propria. A sua difesa c’è da dire che implementare un sistema di semplificazione non nativo avrebbe richiesto una mole di lavoro spaventosa.

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Inutile sottolineare il disappunto dei professionisti del settore, che in questi anni si sono disperati a più non posso, cercando in ogni modo di fare la voce grossa per far tornare i loro giochi preferiti ai loro capitoli meccanicamente più complessi. Sarebbe tuttavia sciocco prendere la parte dei puristi del genere e svilente difendere la semplificazione dilagante. Possiamo invece analizzare in maniera oggettiva il fenomeno della semplificazione del genere ed elogiare l’onestà di chi ha saputo separare competizione e divertimento.

La Nintendo Difference

Uno dei più grandi meriti tecnici della tigre di Kyoto è rappresentato indubbiamente dalla capacità di stratificare i propri prodotti. La grande N infatti riesce a creare titoli in grado di essere giocati e portati a termini perfino dai più piccoli e al tempo stesso di rappresentare una sfida per gli appassionati tramite un lavoro certosino e maniacale di calibrazione delle proprie sfide. Ad esempio, per citare un titolo a caso tra tanti, in Yoshi’s Woolly World la vera e ardua sfida consiste nel trovare tutti i gomitoli di lana, attività assolutamente non necessaria, ma in grado di ripagare il cercatore dell’impegno, con un grado sfida proporzionato allo scopo prefissato.

Competere nel 2018: Smash Bros. e la Nintendo Difference

Nel morire di questo 2018, tutti i picchiaduro di punta delle varie software-house hanno mostrato il loro nuovo volto e indipendentemente dalle proprie meccaniche, che siano incentrate sul juggle, sulla gestione del gioco neutrale o sulle combo aeree, ogni titolo ha proposto un modo tutto suo per sopravvivere al mutamento dei tempi e alle necessità dei nuovi giocatori. Manca all’appello solamente Super Smash bros. Ultimate, in uscita a Dicembre.

Sebbene ogni anno all’EVO ci siano ben due circuiti legati al picchiaduro nintendo per eccellenza (l’immancabile torneo GameCube e il corrispettivo della generazione corrente), Smash non nasce come titolo competitivo. Sakurai aveva inizialmente proposto un party game, dove la fortuna e gli imprevisti, assieme al chiasso con gli amici, l’avrebbero fatta da padrone, relegando l’abilità del giocatore a componente accessoria.

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La necessità di competere più seriamente e creare una modalità senza oggetti e con scenari fissi, nasce proprio dai giocatori stessi, che irretiti dalle potenzialità del titolo e dal carisma dei suoi personaggi, hanno avvertito la necessità di portare il picchiaduro Nintendo ad un livello successivo: la competizione.

Nascono così gli stage Omega e una serie di necessità circa l’evoluzione della saga che abbiamo affrontato in un editoriale dedicato che potete trovare qui. Sarebbe lecito a questo punto domandarsi quale sia la soluzione impiegata da Nintendo, trovandosi per le mani un titoli competitivo, circa l’evoluzione o la semplificazione delle sue meccaniche negli anni. Del resto, sarebbe più che legittimo aspettarsi una semplificazione delle meccaniche in favore dell’accessibilità (È fondamentale ricordare ai puristi che parte delle meccaniche di Melee fossero glitch mai voluti dal team di Sakurai ed utilizzati in maniera impropria).

Nintendo riesce ancora una volta a spiazzarci, perpetrando la più semplice delle soluzioni, già adottata con il capitolo per la sfortunata Wii U: durante il menù multigiocatore saremo chiamati a dover scegliere se giocare in una delle due modalità proposte, per divertimento o per la gloria.

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In questa separazione si cela la vera chiave di volta da adottare per continuare ad avere dei validi titoli competitivi nel futuro: smettere di provare a prendere delle decisioni al posto del giocatore, andando a ridurre il tetto di abilità massima in maniera consapevole per aumentare il concetto di accessibilità verso i nuovi giocatori, ma sensibilizzare il giocatore stesso e fornirgli degli strumenti validi per permettergli di scegliere la tipologia d’attività alla quale dedicarsi all’interno dello stesso titolo.

Non c’è niente di male nel giocare “For Fun” con i propri amici in un titolo di combattimento, magari in una modalità dove avvengono avvenimenti casuali a ravvivare la situazione. Possiamo liberarci della malsana e dilagante necessità di vincere a tutti i costi e rassegnarci ad ottenere dei risultati in relazione al nostro impegno. È altrettanto importante tenere bene a mente che come in ogni altro ambito competitivo, la strada che conduce all’eccellenza è costellata da centinaia di ore ore di dedizione e sacrificio, correlate da una sana passione.

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Ancora una volta giunge salvifica Nintendo, che a volto scoperto ci ricorda che tantissime ore di divertimento le abbiamo passate da bambini a pestarci sul Tekken di turno, ignari di cosa fosse un frame e tanto ci bastava, senza la necessità di doverci improvvisare competenti e che giocare per divertirsi non è un reato. Non siamo obbligati a essere Daigo Umehara e non vogliamo vivere in un mondo in cui chiunque può essere Daigo, pena svilire la magnificenza dell’impegno, ammirabile in tutte le sue declinazioni.

Vai alla scheda di Super Smash Bros. Ultimate
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