Shinobido 2: Revenge of Zen – Recensione Shinobido 2: Revenge of Zen
“…fra nuvole e caligine
l’acqua bruna osserva la luna che
scivola nell’indefinito.”
L’immaginario collettivo occidentale, guidato o ispirato da quello giapponese, da lungo tempo asseconda una prospettiva dell’estremo oriente maliziosamente simile a quella della storia europea e americana, con la recente guarnizione, un po’ superflua, un po’ glamour, di categorie tipicamente hollywoodiane. E di questa tendenza il ninja, sicario destinato a muoversi nell’ombra, ne è forse l’esempio più evidente. Se infatti il samurai giapponese, da rappresentante dell’aristocrazia militare pre-industriale di basso rango quale era, fu alterato nel secolo scorso in un cowboy con katana e occhi a mandorla, eroico e altruista, il sicario di corte del periodo Sengoku, da mercenario senza nome è stato più recentemente inteso al pari dei supereroi americani, tanto che non è raro associargli poteri quali invisibilità o la capacità di correre sull’acqua, o ancora il controllo degli elementi naturali.
Ecco, forse è l’outfit che non convince del tutto…
E mentre si annota uno iato con la realtà dei fatti, impossibile non attribuire al ninja un posto d’onore tra i più fortunati tropi impiegati dal videogame che si situa forse solo dopo figure quali zombie, robot e prodi cavalieri (ovviamente in mutande). Ma c’è ninja e ninja. Da una parte abbiamo il Ryo Hayabusa di Tecmo-Koei, vestito di tutto punto con tutine in lattice di dubbio gusto e dotato della stessa aggraziata silenziosità di un carnevale caraibico. Dall’altra abbiamo i giochi Acquire, a partire dal memorabile Tenchu: Stealth Assassins (perdonando il felice adulterio compiuto dalla serie con From Software).
È fuor di discussione, anche in questo titolo c’è sempre un punto di vista chiaro e fissato, quello dello spettacolo composto dai più noti cliché, dall’immagine di un guerriero invincibile all’infinita rivisitazione romantica della storia che reclama forzatamente per suoi personaggi un’etica cavalleresca, mediata immancabilmente da estetica e poetica tipiche dei codici monastici buddisti. Tuttavia ciò che davvero conta, ciò che soverchia ogni immagine e che resiste a ogni ibridazione, è la riuscita resa di aspetti altrimenti assenti dall’intero panorama videoludico quali l’incertezza dell’attesa, l’impassibilità naturale necessaria per uccidere senza essere visti o la destrezza nella fuga.
Il mercante Echigoya dovrà ovviamente essere punito ancora una volta!
E, malgrado il titolo tenda a presentarsi nuovo quanto nuova è la console che lo ospita, l’assenza di ogni tipo di rifinitura grafica (probabilmente anch’esso un timbro proprio di Acquire), o di altro genere, è pressoché totale, al punto da apparire ostentata. E con tutta probabilità, sbaglia la critica internazionale a giudicarlo troppo simile unicamente al predecessore: Shinobido 2: Revenge of Zen possiede ancora, percepibilmente, l’anima di quei vecchi titoli Psone che hanno dato i natali al genere stealth su console.
Siamo stati scoperti!
Tecnicamente non c’è bisogno di dire che, lustrato dalle nuove tecnologie, il titolo è comunque il migliore da vedere e i suoi controlli i più precisi (con aggiunte sorprendentemente utili – come il toccare le icone a schermo per agganciare la visuale su un bersaglio nelle vicinanze). A livelli più alti di costruzione della struttura di gioco, però, si colgono meccanismi altrettanto evidenti di riproposizione di identiche scelte di design passate (al contrario di quanto avvenuto con Tenchu 4) o della stessa, alquanto “marginale”, intelligenza artificiale dei nemici e con lei i medesimi pattern di comportamento (a cui, per quanto possa essere singolare, l’appassionato è irrimediabilmente affezionato). Il punto però non è tanto cosa sia al passo coi tempi, quanto che cosa sia pertinente. Infatti, la cosa sorprendente di questa vera e propria stupidità artificiale, che vede addirittura degli avversari così sprovvisti di spirito crociato al punto da non crucciarsi più di tanto di fronte a shuriken piovutegli dolorosamente addosso o da non tormentarsi nemmeno per un solo attimo di fronte all’enigma del sushi che di tanto in tanto “germoglia” miracolosamente a terra, è che essa legittima la peculiarità dell’esperienza e della sua portabilità nello stesso momento in cui giustifica la sua inadeguatezza tecnologica. Insomma, il tutto funziona proprio perché su Ps Vita e non su una console casalinga, essendo in grado di riversare al giocatore una squisita sensazione di furtività.
Ancora poco e…
E quindi, nonostante la già accennata profusione di attività di riciclaggio, si cede ancora alla tentazione di immedesimarsi nell’assassino perfetto, impercettibile, letale. In più, l’arretratezza grafica non ha mai costituito un serio ostacolo a una fruizione godibile di un qualsiasi titolo, e anzi, forse, smuove e incoraggia approcci allo stesso tempo ben più profondi e longevi: Revenge of Zen è proprio uno di quei titoli che rischia di tenere incollati allo schermo per molto più tempo rispetto a titoli dal pedigree di gran lunga più certificato.