Indika RECENSIONE | Salmo 119, 45
Sarò sicuro nel mio cammino, perché ho ricercato i tuoi voleri.
Decifrare Indika
non è
facile.
Non è la difficoltà di una seconda run, a intimorirmi; non è la necessità di un secondo playthrough più lento e meditativo, a mettermi dubbi. È la natura stessa del titolo, forse persino l’imperscrutabilità creativa di Odd Meter stesso (lo studio di sviluppo qui alla loro seconda creazione), a farmi provare… un sano terrore?
Indika però non è un horror: non ha jumpscare, non c’è un nemico dal quale fuggire, non è l’orrore il sentimento che più proverai nelle 4-5 ore che segnano la sua durata. Eppure, un po’ come in Gone Home prima di lei – e sicuramente in molti altri titoli che ora mi sfuggono o che semplicemente non hanno incrociato la mia orbita – c’è qualcosa che semplicemente
non torna.
Che fossimo di fronte ad un titolo unico nel suo genere doveva essere chiaro già dal suo trailer, e i primi minuti di gioco sono capacissimi di ricordarcelo, complice una sezione in pixel art nella quale ci troviamo a cadere, nel tentativo di raccogliere le monete sparse sul vertical sentiero del nostro
p
r
e
c
i
p
i
t
a
r
e
.
Proprio
come il tempo
misto che dà il nome
al team di sviluppo, Indika
ci mette di fronte a qualcosa che
non è solo difficile da interpretare, ma che,
per pura forza caotico-centripeta, si spinge fino al
portare come tatuaggio sulla sua pelle digitale la realtà
del non DOVER essere interpretato, e del non VOLERLO essere.
Come un tempo in 5/8, contiene movimenti semplici e movimenti composti.
Da videogioco, i suoi tempi semplici sono i modi in cui strizza l’occhiolino al videogioco in senso tecnico:
punti esperienza, collezionabili, aree fuori dal tracciato che ci forniscono spunti narrativi in più.
Perché in fondo è questa l’apparenza di Indika, sotto lo strato di weird che si manifesta senza preavviso:
un’avventura narrativa in terza persona, vissuta nel ruolo della suora protagonista, Indika appunto,
gentilmente invitata a lasciare il convento nel quale si trova per consegnare una importante missiva in una cittadina non troppo distante da lì.
È nei movimenti composti che il rebus si palesa. Inquadrature inclinate, panchine che offrono punti di osservazione dell’ambiente da angolazioni sempre troppo strane per non destare un’alzata di sopracciglio almeno, dialoghi contemporaneamente assurdi e umani in un mondo contemporaneamente assurdo e disumanizzato, più che disumano. In Indika non ti tornano mai le MiS u Re delle cose: una stalla sembra ospitare un cavallo dal garrese alto almeno il triplo dell’altezza della protagonista; una gru ti permette di spostare interi ponti con una facilità ultraterrena; una fabbrica di confezionamento del pesce è in grado di ingoiarci, tra oscurità e creature dalle dimensioni titaniche e attrici di titaniche espressioni di sofferenza.
I nostri verbi di gioco sono lineari, normali, tradizionali, ligi al dovere, rigorosi. Religiosamente prolissi, a volte. Corriamo, usiamo la torcia, interagiamo con gli oggeti intorno a noi, spostiamo ripiani o casse per raggiungere punti più elevati. Vestiamo però i panni di un personaggio che ha una meta ma non una direzione, un cielo senza Stella Polare che però ha trovato un inaspettato Polo Sud dal quale tentare di fuggire, allontanarsi, dal quale misurare la propria fede… o Fede.
Qui Indika ci introduce ad un secondo personaggio, un companion che di primo acchito mi aveva restituito le sensazioni delle voci nella testa di Hellblade: Senua’s Sacrifice. Chiamala follia, se vuoi, ma concedimi di chiamarlo Diavolo. La possessione di Indika assume i contorni di psicosi, allucinazioni, deliri, comportamenti disorganizzati, malfunzionamenti sociali che ci fanno sentire sempre “sbagliate” rispetto a ciò che stiamo vivendo. Dove finisce la schizofrenia e inizia il delirio mistico? Se guardando una consorella vedessimo una piccola donna danzante uscire dalla sua bocca, trotterellare sul suo braccio e infine tuffarsi nel calice della comunione, non ci verrebbe logico pensare di essere folli o possedute da una qualsivoglia forza maligna.
Anche visivamente c’è molto da dire: il realismo visivo di Indika è di altissima qualità,
ma sono le scelte estetiche di fotografia e composizione dell’immagine a lasciare davvero a bocca aperta,
anche con il rischio di farne uscire una donna danzante. C’è un oscurità palpabile attorno a noi,
tanto nel convento quanto in molti degli ambienti che affronteremo lungo il nostro percorso.
Parlo di buio visivo, sì, palese fin dai titoli di testa, costruiti e quasi stampati proprio nei corridoi bui
della dimora del signore… ma parlo anche di buio emotivo. Del buio che si annida negli angoli
dove la nostra fede vacilla.
˙ɐuǝɹɔuɐɔ uı oıɔɔɐɹq un ıp ɐuǝɹɔuɐɔ uı ouɐɯ ɐun ıp ɐuǝɹɔuɐɔ uı ɐʇıp ǝns ǝl ouɐddɐɹƃƃɐ ıs ǝlɐnb ɐllɐ ollɐʇǝɯ ıp ɐzzɐʇ ɐun uı ǝpǝʌ ɐl ɐʎlı ‘ɐıʌ ɐl opuǝpɹǝd ɐʇs ǝpǝɟ ɐllɐp ıǝl ǝs ˙ɐʞıpuı ɐ ǝɹɐʇlɐɹʇuoɔ un ǝɹıɹɟɟo ɐ – ıou ɐ ouɹoʇʇɐ opuoɯ lı ɐıuɐlıp ǝ ɐɹoʌıp ǝ ‘oıɥɔɔǝɹo oɹʇsou lɐ ǝɹɐılƃıqsıq ıp ǝʇʇǝɯs oddoɹʇ ɹǝd ıɐɯ ǝɥɔ – oloʌɐıp lɐ ǝɹʇlo uoıuɐdɯoɔ oɔıun ‘ɐʎlı ıp oıƃƃɐuosɹǝd lı è ınb ˙ǝuoızuǝpǝɹ ǝ ɐdloɔ è ‘àʇılɐuoızɐɹɹı ǝ ɐɔıƃol è ‘oɔıɯoɔ ǝ oɔıƃɐɹʇ è ouɐɯn ǝɹǝssǝ,l :ǝlos ɐp ǝʇuǝɯǝʇuɐʇsoɔ oʇuoɔ oɯɐıpuǝɹ ǝu ǝɔ ɐɯ ınl ɐʌɐpɹoɔıɹ ol ǝɔ ˙ɐʞıpuı ıp ɐıpǝɯɯoɔ ǝ ɐıpǝƃɐɹʇ ɐɹɟ oıɹqılınbǝ,l ǝɹɐʇuoɹɟɟɐ,llǝu ‘ʎʞsʌǝoʇsop ǝɹɐɹǝpoɟs uou ǝlıqıssodɯı è
È il ping-pong fra fede e abbandono, e fra pena e redenzione, che più è architetto dell’esperienza ludica di Indika.
Non collezionare i punti. Non servono a niente.
D’altronde la Fede a schermo è ortodossa, struttura di dogmi per i quali noi siamo piccoli e insignificanti, in confronto ai piani del Signore. Ha senso aderire ad un sentiero di moralità, se la nostra vita può esserci tolta in un istante e senza una vera ragione? Perchè continuiamo a inseguire il power-up “Buon Samaritano” se poco o niente contiamo nei grandi piani?
Sono questi i dubbi – inespressi da Indika ma espressi dal suo personale Diavolo – che Ilya semplicemente non ha. Ilya però sopporta la sofferenza del suo braccio ormai morto in funzione della redenzione che prevede alla fine del tortuoso cammino, ma, di nuovo, nemmeno la sofferenza ci è concessa. Con la maschera dell’empatia e della compassione ben salda, trasciniamo anche altri nella nostra follia di (assenza di) fede, o meglio artefici dei dettami della nostra fede vacillante, pronti a sacrificare la “vera” Fede di altri all’altare della nostra redenzione.
Poco importa
se alla fine di tutto
quella redenzione non ci è
concessa e non esiste. Poco importa
se a dettare le nostre azioni non c’era davvero
altra voce che quella della nostra certezza che non
ne vale la pena, che è tempo sprecato, che nessuno ci sta guardando, nessuno ci sta giudicando.
Allora forse è meglio rompere il rosario di quello che crediamo, romperne i grani, le regole.
Distruggere le catene che ci costringono, anche se ce le siamo messe addosso noi.
Indika è la colpa di un mercato fatto di titoli che potrebbero osare di più.
Indika è la redenzione di un mercato fatto di titoli che pregano agli altari sbagliati.
Indika è l’ironia di un viaggio fatto di dialoghi al limite dell’assurdo che escono dalla bocca di personaggi credibili in contesti incredibili.
Indika è la tragedia di un gioco che nel suo voler spiegare il mondo videoludico senza spiegarlo, finisce per astrarsi, e diventare Fede.
Sì, perché non ci sono prove per spiegare Indika, non ci sono tecnicismi, non ci sono framerate o ray-tracing. Indika rimane così… indecifrabile, sfuggendo ad ogni recensione o analisi mentre tutte le abbraccia. Indika è un’esperienza ai limiti del mistico, e solo vivendola puoi vagamente capirne lo scopo, i toni o anche solo gli auto-imposti limiti e assurdità. C’è molto che non ti ho detto, del titolo di Odd Meter, ma anche solo una parola in più ti priverebbe del godimento e della sofferenza di quest’opera.
Non ti resta che compiere un atto di fede, e cosa c’è dall’altra parte, lo sapremo solo tu ed io.
Una mistica rapsodia